RECENSIONI
Philip Ball
L'istinto musicale. Come e perché abbiamo la musica dentro.
Dedalo, Pag. 512 Euro 22,00
Occorre del tempo per leggere il voluminoso L'istinto musicale (Come e perché abbiamo la musica dentro), complesso ma niente affatto pesante, persino didascalico. Non solo per la mole. Se è vero che cerca di tracciare una mappatura la più esaustiva possibile di una nozione così prensile e al tempo stesso sfuggente come quella indicata nel titolo avvalendosi di prospettive differenti - diciamo banalmente interdisciplinari – ognuna delle quali foriera di spunti anche utilizzabili in sé, è solo l'insieme intrecciato e così vasto di contributi che può davvero avvicinare una risposta al sottotitolo.
Philip Ball è un divulgatore scientifico d'indubbia intelligenza, dalle conoscenze evidentemente massicce, non solo musicali, il che gli consente un approccio prismatico all'argomento – intanto, ottimo per sgombrare il campo da una serie di banalità e luoghi comuni anche stupidi intorno all'arte per eccellenza. A partire dall'equivalenza della musica con la matematica, disciplina che con la musica ha certo a che fare ma non può coincidere con essa (piuttosto, essa "è la più notevole combinazione di arte e scienza, logica ed emozione, fisica e psicologia"). La matematica serve invece all'autore per avvicinare l'oggetto del suo studio non più di altri apporti quali quelli delle scienze cognitive, della psicologia, della neurologia, della filosofia, della semiotica.
Ma soprattutto è la stessa teoria musicale a orientarci, declinata però dentro un campionario storico-geografico di molteplici possibilità, tali da non garantire certezze esaustive al riguardo. Non è compito di questo libro ma da esso emerge con definitiva dimostrazione (e direi implicita soddisfazione del lettore) che il salto verso un orizzonte extraoccidentale è definitivamente compiuto, non solo perché musiche estranee alla notazione "classica", europea, aspirano a uno stato di pari dignità, ma perché i ragionamenti persino più scontati che facciamo intorno agli aspetti emozionali della musica possono essere preventivamente problematizzati dalla domanda: "di che cosa parliamo quando parliamo di emozioni musicali"? Per un ascoltatore subsahariano ha lo stesso significato?
Che questo sia un aspetto non secondario della faccenda lo ricorda nell'introduzione al volume il semiologo Franco Fabbri: "L'identificazione della musica eurocolta con la musica tout court (...) ha fortemente influenzato l'attività scientifica nelle discipline sperimentali".
Ecco, l'antropologia culturale basterebbe per sapere che le categorie concettuali che utilizziamo per studiare questo o quell'aspetto della musica presuppongono che l'impostazione delle stesse domande sia tutt'altro che pacifica. Anche le più immediate: cosa sono le note musicali? La musica è un linguaggio? Ha un significato (vexata quaestio)?
Se a qualcosa di definitivo giunge lo studio di Ball (degli apporti etnografici si è detto, ma non mancano exempla da Bach a Bacharac, dai Beatles a D. Ellington, da Ligeti a Copland) è l'idea che l'essenza della musicalità "quasi tutti la possediamo", a prescindere dall'essere musicisti (anche dilettanti, evidentemente). Perché la "musica non è un fenomeno naturale, ma un concetto umano". Ed è certo che non si danno notizie di società "prive di una qualche forma di musica", pur di intenderla – questo è il punto imprescindibile – attraverso modalità che possono essere lontanissime da quelle cui siamo abituati. Per gli Igbo nigeriani non esiste un concetto di musica estraneo alla danza (il che è un di più rispetto al pensare una musica "per la danza"); i "talking drums" comunicano informazioni specifiche; per Boezio la musica aveva da fare con la ragione e non con i sensi, era una roba filosofica; Margaret Mead negava la vecchia convinzione che la musica balinese fosse meramente utilitaristica, ma indubbiamente il piacere del gamelan è più legato alla sua esecuzione che alla musica in sé (per quel che vale, confermo l'impressione). Probabile, come sosteneva Darwin, che non abbia un valore adattivo, ma è certo che farne uno "zuccherino" come vorrebbe il neo-cognitivista S.Pinker è una cosa che fa ridere. Stiamo piuttosto con Nietzsche, per il quale la musica "è qualcosa per cui vale la pena vivere sulla Terra".
di Michele Lupo
Philip Ball è un divulgatore scientifico d'indubbia intelligenza, dalle conoscenze evidentemente massicce, non solo musicali, il che gli consente un approccio prismatico all'argomento – intanto, ottimo per sgombrare il campo da una serie di banalità e luoghi comuni anche stupidi intorno all'arte per eccellenza. A partire dall'equivalenza della musica con la matematica, disciplina che con la musica ha certo a che fare ma non può coincidere con essa (piuttosto, essa "è la più notevole combinazione di arte e scienza, logica ed emozione, fisica e psicologia"). La matematica serve invece all'autore per avvicinare l'oggetto del suo studio non più di altri apporti quali quelli delle scienze cognitive, della psicologia, della neurologia, della filosofia, della semiotica.
Ma soprattutto è la stessa teoria musicale a orientarci, declinata però dentro un campionario storico-geografico di molteplici possibilità, tali da non garantire certezze esaustive al riguardo. Non è compito di questo libro ma da esso emerge con definitiva dimostrazione (e direi implicita soddisfazione del lettore) che il salto verso un orizzonte extraoccidentale è definitivamente compiuto, non solo perché musiche estranee alla notazione "classica", europea, aspirano a uno stato di pari dignità, ma perché i ragionamenti persino più scontati che facciamo intorno agli aspetti emozionali della musica possono essere preventivamente problematizzati dalla domanda: "di che cosa parliamo quando parliamo di emozioni musicali"? Per un ascoltatore subsahariano ha lo stesso significato?
Che questo sia un aspetto non secondario della faccenda lo ricorda nell'introduzione al volume il semiologo Franco Fabbri: "L'identificazione della musica eurocolta con la musica tout court (...) ha fortemente influenzato l'attività scientifica nelle discipline sperimentali".
Ecco, l'antropologia culturale basterebbe per sapere che le categorie concettuali che utilizziamo per studiare questo o quell'aspetto della musica presuppongono che l'impostazione delle stesse domande sia tutt'altro che pacifica. Anche le più immediate: cosa sono le note musicali? La musica è un linguaggio? Ha un significato (vexata quaestio)?
Se a qualcosa di definitivo giunge lo studio di Ball (degli apporti etnografici si è detto, ma non mancano exempla da Bach a Bacharac, dai Beatles a D. Ellington, da Ligeti a Copland) è l'idea che l'essenza della musicalità "quasi tutti la possediamo", a prescindere dall'essere musicisti (anche dilettanti, evidentemente). Perché la "musica non è un fenomeno naturale, ma un concetto umano". Ed è certo che non si danno notizie di società "prive di una qualche forma di musica", pur di intenderla – questo è il punto imprescindibile – attraverso modalità che possono essere lontanissime da quelle cui siamo abituati. Per gli Igbo nigeriani non esiste un concetto di musica estraneo alla danza (il che è un di più rispetto al pensare una musica "per la danza"); i "talking drums" comunicano informazioni specifiche; per Boezio la musica aveva da fare con la ragione e non con i sensi, era una roba filosofica; Margaret Mead negava la vecchia convinzione che la musica balinese fosse meramente utilitaristica, ma indubbiamente il piacere del gamelan è più legato alla sua esecuzione che alla musica in sé (per quel che vale, confermo l'impressione). Probabile, come sosteneva Darwin, che non abbia un valore adattivo, ma è certo che farne uno "zuccherino" come vorrebbe il neo-cognitivista S.Pinker è una cosa che fa ridere. Stiamo piuttosto con Nietzsche, per il quale la musica "è qualcosa per cui vale la pena vivere sulla Terra".
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