RECENSIONI
Gabriele D'Annunzio
La Carta del Carnaro – e altri scritti
Castelvecchi, Pag. 168 Euro 16,00
Quanto a sagre e commemorazioni in Italia, di solito, non ci facciamo mancare nulla. Eppure la ricorrenza dei novanta anni trascorsi dall'impresa fiumana; dei novanta anni che ci dividono dall'epifania della Reggenza Italiana del Carnaro sembra che debba passare nella più convinta e intestardita dimenticanza: ed è pure giusto, perché, in fondo, questi novanta anni possono essere presi per un percorso perfetto ad un cui estremo c'è l'esperienza spirituale, morale e ideologica, sperticatamente alta, che Gabriele D'Annunzio volle procurare, e all'altro (quello che ci capita di vivere) questo stupore di abisso che è l'epoca berlusconiana.
La rimozione e perversione del fiumanesimo ha inizio subito, a impresa tragicamente finita, con lo svuotamento delle sue parole d'ordine da parte del nascente Stato burocratico fascista e con una sua riscrittura completa (cominciando con la capziosa ri-scenaggiatura di un documentario girato a caldo durante la liberazione della città); in seguito a volere fare tabula rasa della memoria rivoluzionaria di Fiume e degli arditi si adoperò il partito comunista consegnando alla retorica della Prima Repubblica un vuoto sui libri di storia; e troviamo anche questo vuoto a pesare ancora nel vuoto dei nostri giorni.
Non deve essere certo facile alla coscienza contemporanea l'assimilazione di un'esperienza che sembra un puro paradosso: patriottismo e internazionalismo intimamente connessi; libertà totali e radicali espresse fuori da classici canoni democratici; la fondazione di uno spirito in cui si legano costantemente la libertà individuale a quella comunitaria, la giustizia alla libertà, la prosperità culturale a quella materiale. Questa assimilazione, però, foss'anche solo parziale, potrebbe nutrire nuove speranze.
Ne è testimonianza questa pubblicazione della carta costituzionale della Reggenza, ideata dal sindacalista anarchico Alceste de Ambris e stilata dalla penna sensuosa e spirituale di D'Annunzio. Una costituzione come un poema: non una raccolta di leggi e convenzioni, ma un discorso che debba penetrare le coscienze. Del resto una parte non poco cospicua dell'azione compiuta da D'Annunzio a Fiume fu proprio quella di riscrivere una sensibilità diversa e più profonda in coloro che parteciparono all'impresa. Lo racconta il poeta belga comunista Leone Kochinitzkj, di buona famiglia borghese che, borghesemente, era stato cresciuto al culto di una lingua sobria, contenuta, efficiente e che a Fiume, in qualità di Ministro degli Esterni (non degli Esteri: a Fiume tutto doveva essere diverso che altrove), dopo essere stato aspramente ripreso dal Comandante D'Annunzio per aver usato in un documento un doppio genitivo, capì cos'era Fiume, e si ritrovò a vivere l'ebbrezza di questa esperienza nell'ebbrezza di un nuovo pagano e barocco linguaggio; e con lui gli arditi che durante le esercitazioni si fermavano a raccogliere fiori e riscoprivano dentro di sé antichi riti (una notte D'Annunzio venne svegliato da un corteo di fiaccole, di soldati che cantavano inni estatici: "chi vi porta a me, se non la poesia?"); e i marinai che esultavano bacchicamente con l'eia eia ("alà alà", e aggiungeva il Comandante, "ed evviva l'amore!"). E via con questo sogno.
Assimilare questo paradosso; assimilarne il linguaggio; accettare, più prosaicamente che, al capitolo IX dei fondamenti della costituzione, è asserito che "Lo Stato non riconosce la proprietà come dominio assoluto della persona sopra la cosa, ma la considera come la più utile delle funzioni sociali. Nessuna proprietà può essere riservata alla persona quasi fosse una sua parte; né può essere lecito che tal proprietario infingardo la lasci inerte o ne disponga malamente, ad esclusione di ogni altro. Unico titolo legittimo di dominio su qualsiasi mezzo di produzione e di scambio è il lavoro. Solo il lavoro è padrone della sostanza resa massimamente fruttuosa e massimamente profittevole all'economia generale.", è oggi sicuramente fuori da ogni ipotesi.
Ed è pure questa ipotesi fra quelle che potrebbero riscrivere in termini positivi ogni nostra speranza. Scrive D'Annunzio: "Anche se dopo brevissimo tempo l'annessione ci impedisse di attuare la Costituzione in tutte le forme, questa potrebbe sempre rimanere come un esempio a tutto il mondo dell'aspirazione di un popolo e di un gruppo di spiriti".
di Pier Paolo Di Mino
La rimozione e perversione del fiumanesimo ha inizio subito, a impresa tragicamente finita, con lo svuotamento delle sue parole d'ordine da parte del nascente Stato burocratico fascista e con una sua riscrittura completa (cominciando con la capziosa ri-scenaggiatura di un documentario girato a caldo durante la liberazione della città); in seguito a volere fare tabula rasa della memoria rivoluzionaria di Fiume e degli arditi si adoperò il partito comunista consegnando alla retorica della Prima Repubblica un vuoto sui libri di storia; e troviamo anche questo vuoto a pesare ancora nel vuoto dei nostri giorni.
Non deve essere certo facile alla coscienza contemporanea l'assimilazione di un'esperienza che sembra un puro paradosso: patriottismo e internazionalismo intimamente connessi; libertà totali e radicali espresse fuori da classici canoni democratici; la fondazione di uno spirito in cui si legano costantemente la libertà individuale a quella comunitaria, la giustizia alla libertà, la prosperità culturale a quella materiale. Questa assimilazione, però, foss'anche solo parziale, potrebbe nutrire nuove speranze.
Ne è testimonianza questa pubblicazione della carta costituzionale della Reggenza, ideata dal sindacalista anarchico Alceste de Ambris e stilata dalla penna sensuosa e spirituale di D'Annunzio. Una costituzione come un poema: non una raccolta di leggi e convenzioni, ma un discorso che debba penetrare le coscienze. Del resto una parte non poco cospicua dell'azione compiuta da D'Annunzio a Fiume fu proprio quella di riscrivere una sensibilità diversa e più profonda in coloro che parteciparono all'impresa. Lo racconta il poeta belga comunista Leone Kochinitzkj, di buona famiglia borghese che, borghesemente, era stato cresciuto al culto di una lingua sobria, contenuta, efficiente e che a Fiume, in qualità di Ministro degli Esterni (non degli Esteri: a Fiume tutto doveva essere diverso che altrove), dopo essere stato aspramente ripreso dal Comandante D'Annunzio per aver usato in un documento un doppio genitivo, capì cos'era Fiume, e si ritrovò a vivere l'ebbrezza di questa esperienza nell'ebbrezza di un nuovo pagano e barocco linguaggio; e con lui gli arditi che durante le esercitazioni si fermavano a raccogliere fiori e riscoprivano dentro di sé antichi riti (una notte D'Annunzio venne svegliato da un corteo di fiaccole, di soldati che cantavano inni estatici: "chi vi porta a me, se non la poesia?"); e i marinai che esultavano bacchicamente con l'eia eia ("alà alà", e aggiungeva il Comandante, "ed evviva l'amore!"). E via con questo sogno.
Assimilare questo paradosso; assimilarne il linguaggio; accettare, più prosaicamente che, al capitolo IX dei fondamenti della costituzione, è asserito che "Lo Stato non riconosce la proprietà come dominio assoluto della persona sopra la cosa, ma la considera come la più utile delle funzioni sociali. Nessuna proprietà può essere riservata alla persona quasi fosse una sua parte; né può essere lecito che tal proprietario infingardo la lasci inerte o ne disponga malamente, ad esclusione di ogni altro. Unico titolo legittimo di dominio su qualsiasi mezzo di produzione e di scambio è il lavoro. Solo il lavoro è padrone della sostanza resa massimamente fruttuosa e massimamente profittevole all'economia generale.", è oggi sicuramente fuori da ogni ipotesi.
Ed è pure questa ipotesi fra quelle che potrebbero riscrivere in termini positivi ogni nostra speranza. Scrive D'Annunzio: "Anche se dopo brevissimo tempo l'annessione ci impedisse di attuare la Costituzione in tutte le forme, questa potrebbe sempre rimanere come un esempio a tutto il mondo dell'aspirazione di un popolo e di un gruppo di spiriti".
di Pier Paolo Di Mino
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