RECENSIONI
Wanda Marasco
La compagnia delle anime finte
Neri Pozza, Pag. 240 Euro 16,50
Di intensità quasi dolorosa, questo romanzo finalista al Premio Strega potrebbe stare accanto a L’oro di Napoli di Marotta, rappresentandone il lato oscuro. La dimensione corale, gli umori di una collettività povera e trafelata, la città come personaggio onnipresente richiamano la materia di quei racconti, anche se qui le storie si intrecciano e si uniscono lungo un unico filo narrativo. Altra differenza è che se nella raccolta di Marotta la protagonista è la vita, sia pure una vita tribolata e sempre in bilico fra le insidie quotidiane, qui è la morte a scandire il tempo e i ricordi, unificando le storie nella comune qualità di storie perdenti. Perdenti sono i protagonisti, come per una sciagurata e ineluttabile vocazione.
Il tempo spaventoso era penetrato nello stanzone degli Umbriello quando Adelì aveva cominciato a rammendare l’odio insieme ai buchi delle calzette. Le figlie crescevano e lei vedeva al posto loro soltanto carne pericolante e minaccia.
Il racconto comincia con la memoria che va a ritroso, partendo dal letto di morte di Vincenzina Umbriello. È la figlia Rosa che riprende i fili a partire dall’infanzia di Vincenzina in un povero paese di campagna, fino all’incontro con Rafele che diventerà suo marito e padre di Rosa.
Quando il sole di questa storia era pieno di speranza e aveva in mente un piano, il sangue di Vincenzina Umbriello, mischiato a quello di Rafele Maiorana, aveva già tracciato tutte le orme della vita.
C’è fra le righe un incombere del fato come in una tragedia greca, e del resto anche qui ogni passo è accompagnato e commentato dal coro. La guagliunera schiamazzante dei ragazzi; le orche, occhiute vicine di casa a cui nulla sfugge. Coreuti e protagonisti sono assoggettati alla stessa legge. Sono le anime finte, le maschere che il destino impone a ciascuno in un canovaccio che offre ben poche deviazioni.
Così passo dopo passo, evocando la storia della madre, Rosa si accorge che, al di là di ingannevoli dettagli, ha di fatto percorso le sue orme.
Il vero protagonista del romanzo è il linguaggio, che l’Autrice crea a proprio uso mescolando lingua e dialetto in un amalgama da spennellare addensando e alleggerendo a seconda dei casi con assoluta libertà. Linguaggio che riesce a essere insieme scarno e sontuoso. A volte il racconto scorre a fiume, in altri punti rallenta a sgocciolare gli umori di un dettaglio.
I ritratti si tratteggiano nel gesto, nel retroterra oscuro di un pensiero, nello spessore dolente, nel rapido balenare di un dettaglio fisico. La tipicità si intreccia con l’unicità tramite il collante del dolore.
Vincenzina e Rafele, Adelì che le durezze della vita hanno reso feroce. Iolanda, colpevolizzata per essere troppo bella e perciò destinata al martirio. Lina Campana che cerca fra le ombre dell’immensa casa il fantasma della sua bambina morta, Annarella che svolge il ruolo iniziatico della compagna di scuola più disinibita, il maestro Nunziata che elargisce agli alunni schegge di follia. E Mariomaria, creatura che le stimmate della transessualità costringono a una vita di esclusione.
Non a caso nelle prime pagine si fa cenno al sottosuolo di Napoli, che poi diventa un tema ricorrente.
Mia madre cammina con un passo misterioso. Lo sa che sotto i basoli c’è il paese antico. Una volta ne ha visto l’imbocco nel vascio di Sisina, la contrabbandiera che abita al numero 133 del borgo dei Cristallini. C’ero anch’io. Sisina aprì una porta nascosta dietro la testiera del letto.
“Guardate, Vincenzì, ci sta una scala… Io mi metto paura. (…) Ce stanno e’ muorte, Vincenzì…”
Non a caso, dicevo, perché tutto il romanzo è fondato sull’archeologia della memoria. Scendere nel profondo è andare a ritroso e confrontarsi con la morte.
di Giovanna Repetto
Il tempo spaventoso era penetrato nello stanzone degli Umbriello quando Adelì aveva cominciato a rammendare l’odio insieme ai buchi delle calzette. Le figlie crescevano e lei vedeva al posto loro soltanto carne pericolante e minaccia.
Il racconto comincia con la memoria che va a ritroso, partendo dal letto di morte di Vincenzina Umbriello. È la figlia Rosa che riprende i fili a partire dall’infanzia di Vincenzina in un povero paese di campagna, fino all’incontro con Rafele che diventerà suo marito e padre di Rosa.
Quando il sole di questa storia era pieno di speranza e aveva in mente un piano, il sangue di Vincenzina Umbriello, mischiato a quello di Rafele Maiorana, aveva già tracciato tutte le orme della vita.
C’è fra le righe un incombere del fato come in una tragedia greca, e del resto anche qui ogni passo è accompagnato e commentato dal coro. La guagliunera schiamazzante dei ragazzi; le orche, occhiute vicine di casa a cui nulla sfugge. Coreuti e protagonisti sono assoggettati alla stessa legge. Sono le anime finte, le maschere che il destino impone a ciascuno in un canovaccio che offre ben poche deviazioni.
Così passo dopo passo, evocando la storia della madre, Rosa si accorge che, al di là di ingannevoli dettagli, ha di fatto percorso le sue orme.
Il vero protagonista del romanzo è il linguaggio, che l’Autrice crea a proprio uso mescolando lingua e dialetto in un amalgama da spennellare addensando e alleggerendo a seconda dei casi con assoluta libertà. Linguaggio che riesce a essere insieme scarno e sontuoso. A volte il racconto scorre a fiume, in altri punti rallenta a sgocciolare gli umori di un dettaglio.
I ritratti si tratteggiano nel gesto, nel retroterra oscuro di un pensiero, nello spessore dolente, nel rapido balenare di un dettaglio fisico. La tipicità si intreccia con l’unicità tramite il collante del dolore.
Vincenzina e Rafele, Adelì che le durezze della vita hanno reso feroce. Iolanda, colpevolizzata per essere troppo bella e perciò destinata al martirio. Lina Campana che cerca fra le ombre dell’immensa casa il fantasma della sua bambina morta, Annarella che svolge il ruolo iniziatico della compagna di scuola più disinibita, il maestro Nunziata che elargisce agli alunni schegge di follia. E Mariomaria, creatura che le stimmate della transessualità costringono a una vita di esclusione.
Non a caso nelle prime pagine si fa cenno al sottosuolo di Napoli, che poi diventa un tema ricorrente.
Mia madre cammina con un passo misterioso. Lo sa che sotto i basoli c’è il paese antico. Una volta ne ha visto l’imbocco nel vascio di Sisina, la contrabbandiera che abita al numero 133 del borgo dei Cristallini. C’ero anch’io. Sisina aprì una porta nascosta dietro la testiera del letto.
“Guardate, Vincenzì, ci sta una scala… Io mi metto paura. (…) Ce stanno e’ muorte, Vincenzì…”
Non a caso, dicevo, perché tutto il romanzo è fondato sull’archeologia della memoria. Scendere nel profondo è andare a ritroso e confrontarsi con la morte.
di Giovanna Repetto
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