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Il Paradiso degli Orchi
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RECENSIONI

Massimo Mongai

La memoria di Ras Tafari Diredawa

Robin Edizioni, Pag.244 Euro 9.00
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Bella l'idea delle Edizioni Robin di offrire un panorama dei luoghi del delitto. A fine libro c'è una cartina che indica le località, coi nomi dei rispettivi poliziotti o investigatori del posto, dove avvengono i truci misfatti e il lettore ha un quadro d'insieme del delinquere nel mondo.

E' ancora una topografia parziale: vorremmo, per esempio che si ammazzasse e si indagasse anche in Africa (qualcuno obietterà: ma non muoiono già abbastanza? Ci mancano pure i delitti oltre che le carneficine dei dittatori, le carestie e la fame per massacrare gli africani?) tanto per non farci mancare nulla, o in Oceania dove, sarà il clima o gli spazi immensi, ma mi pare che reati contro la persona se ne compiano molto pochi.

La memoria di Ras Tafari Diredawa vede la città di Roma come protagonista, anzi meglio ancora, il quartiere romano della Garbatella (secondo l'autore,uno dei più belli della capitale). E si sa, ormai è scontato, nelle metropoli succede di tutto, anche di ritrovarsi un cadavere di una volontaria della Caritas, con lo stesso nome di una piazza, nel parco di Colle Oppio.

Altro protagonista della storia è l'etiope Ras Tafari Diredawa, inizialmente pingue barbone, ubriaco, senza tetto e senza memoria, poi, di fronte al delitto, come se avesse invece visto la Madonna alla stregua della Soubirou, ridiventa sobrio, rammenta le sue nobili origini, ma anche le sue terribili disgrazie (la moglie ammazzata e lui cacciato dal paese) e sopraffatto da esigenze improrogabili di giustizia, decide di indagare con l'apporto di un prete e del maresciallo Sante Cafoni.

Risultato?: una noia pazzesca.

Massimo Mongai, uno dei pochi convincenti autori italiani di fantascienza, come ogni scrittore di genere ha deciso di cimentarsi col giallo, o noir se vi piace di più (oddio non tutti lo fanno, ma il mercato affamato di accidenti impone quasi la scelta), ma con risultati che sono francamente al di sotto delle aspettative. La trama procede per accumuli fastidiosissimi (nozioni, biografie e pignolerie che sfiancano il lettore più paziente) e ci viene da pensare immediatamente che se invece di scrivere facesse del cinema, Mongai sarebbe un uggioso documentarista, uno, tanto per dire, che se dovesse raccontarci la vita in una stalla di mucche riprenderebbe il fumo dell'abbondante deiezione dei bovini piuttosto che il loro commovente rientro sul far del tramonto.

Qualcuno obietterà, ma la "sottile metafora" non è chiara. Ma sì, è come se mettessi il dito nella dualità tra immaginazione e anatomia. Chiaro adesso? No?

Vuole esagerare per rendere credibili la storia e le persone capitateci dentro: non ha senso. Se non fosse che il romanzo, come tutti i romanzi, ha una fine e quindi chiude i battenti, verrebbe voglia,a noi lettori, di aggiungere altre informazioni come fosse una sorta di Wikipedia in fieri.

No. A volte i noir più riusciti giocano la carta dell'inattendibilità (anche nel cinema. Lynch non è forse il più grande narratore di irrequiete incongruità?) e della costruzione audace e pellegrina. Confrontarsi con un romanzo che impone i dettami della fruizione è impresa ardua e faticosa.

Gli editori ci avvertono che è in preparazione un'altra avventura dell'etiope in questione. Non la seguirò. Senz'andro non la seguirò (come avrebbe detto il povero Sordi).



di Eleonora del Poggio


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