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Il Paradiso degli Orchi
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RECENSIONI

Fabio Nardini

La povera (neo)lingua italiana

Malatempora, Pag. 118 Euro 7,00
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Ci sono dei libri che hanno la caratteristica d'essere semplici e profondi - la cima tra essi è Lettera a una professoressa. Qualità che si risolve in due atteggiamenti verso di loro: di chi ha letto tutti i libri che c'è al mondo, dunque sbadiglia sospirando "scoperta dell'acqua calda!". E, simmetrico ed opposto, nell'indurre nei sempliciotti come me e in genere in chi li legge l'impressione di aver sempre saputo quel che ha appreso dalle pagine chiuse da poco, e saputo che era fondamentale: eppure di non averlo mai visto chiaramente, d'averlo rinchiuso in un limbo d'inespressività. D'esser stati quindi, nei suoi rispetti, infanti, dato che l'etimo di questo termine altro non vuol dire se non "colui che non parla". Dunque, libri come questi ci fanno uscire dall'infanzia, ci accompagnano ad esser (più) adulti.

Tanto più, quando si occupano, come il presente, di parole - meglio ancora, di quel coacervo di modi (e mode) linguistici che, come l'edera regina, s'avviluppa al tronco millenario d'un idioma e ne trae linfa, impoverendolo. Anzi, ci dice l'Autore, essi modi e i termini-Terminator che li compongono sono dei virus (p. 76) che infettano prima i discorsi, quindi il pensiero: nonché essere ausilii preziosi per descrivere i reali rapporti tra uomini e fenomeni, queste costruzioni patologiche son nate appositamente per travisarli e svuotarli, indi per recarci non il mondo ma il suo ectoplasma, non il reale ma il fantasma dell'irrealtà. Sì, certo: Orwell. "Scontato!", dirà il nostro sbadigliatore. Può darsi: ma il problema non è che si scopra quanto già era chiaro al polemista Blair, piuttosto che quelle tecniche di deformazione e avvilimento d'ogni comunicazione che voglia dirsi umana son vive e lottano contro di noi. Naturalmente, con metodi e maniere, se non intenti e congegni, diversi: e giova perciò portarle alla luce, individuarle, precisarle, per amputare il loro capo di tenie - come fa il poeta autentico, che scava in sé alla ricerca di quel cattivo poeta che è l'anima, (Fortini) e, una volta rintracciatalo, lo strangola, cosicché il meccanismo della poesia sintetizzi poetiche verità e non poetiche fregnacce.

E vediamo allora i dettagli dello scempio quotidiano a cui son sottoposte e la lingua, e la nostra capacità di articolarla, dalle formazioni virali, cosicché l'italiano si trasformi in "italiese", la linguessa che ha i suoi padri peregrini nei Bongiorno e nei Costanzo: vexilla prodeunt del politichese, giuridichese, burocratese, le forme vetuste di tali impedimenti, intralci ("scandali", giacché la radice "skandl" in indoeuropeo proprio ciò significa - e imbroglio, trabocchetto), sferraglianti meccanismi celibi che traducono il rifiuto di "costruire una frase in modo lineare", (p. 36) e la libido del potere d'essere impersonale (dunque irresponsabile e irrecuperabile) laddove il soggetto ha da farsi non individuo, ma individuabile. (cfr. p. 39)

Tra esse (de)forme, insidioso in particolar modo è il gergo dei neo(po)litici, versipelle come i suoi estensori, dato che la sua fumosa astrattezza ora vuol fingersi chiarità d'esposto e solido sentimento - ma è finzione d'esser comprensibili essendo oscuri, funzione imposta dal dialetto televisionario.

Compare di questi ceffi e suo sgherro, l'ideologhese, più rozzo e temibile, come si addice alle "parole-poliziotto" che lo compongono: "termini introdotti nella lingua per sorvegliare il discorso e impedire che prenda direzioni non gradite". (p. 15) Esempi? Efficienza, emergenza, esubero, flessibile, guerra umanitaria, new economy, nord-est (meravigliosa la definizione: "zona d'Italia miserabilmente ricca" (p. 26)), tolleranza zero. Insomma, la parlesìa (*) del cialtronismo economico ruspante e rapace, e dell'intimidazione questurino-gesuitica.

Altri crampi linguistici li dobbiamo ai fratellini minori e minorati degli aborti suddetti: l'espertese ne è il maggiore, e i piccoli focomelici sono il didattichese, l'economichese, l'informatichese. Vaste e multiformi sono le carie che provocano nello smalto della lingua: Pierino (pòra stella!) a otto anni cinguetta di "piani d'offerta formativa", di "spendibilità - o trascinamento - delle conoscenze", di "verifiche strutturate" - viene voglia di trascinarlo, sì, ma dal pusher più vicino per uno spino o due pasticche. E al bar, intorno al frigo della sorbetteria, c'è radunata sì una piccola folla intorno a delicati fogli rosa, ma non è la "Gazzetta" ahinoi, bensì il "Sole- 24 ore": ed è tutt'un crocchiare di "crash dei titoli hi-tech", un frinìre di "free and open market" o "free trade", uno starnutire di NAFTA e FMI, un uggiolare di "hudge fund", un tritticare di "trader" - perché "quando proprio non si sa che dire, lo si dice in inglese". (p. 61: naturalmente c'è anche la versione "padrona" dell'economichese (cfr. p. 58), ma quella è una cosa ben più decisiva) Ultimo della famigliastra, l'informatichese lo sentiamo masticare dai tonti tutti ritinti e pinti che vogliono fare gli aggiornati: e si ride. Tuttavia, l'Autore riflette: "ogni terminologia nata per descrivere i programmi e le loro applicazioni serve anche (...) per parlare di tutto il resto", (p. 63) e si smette di ridere, perché ciò rivela la prontezza di tali strutture a invadere il pensiero e conformarlo alla propria lordosi.

E siamo arrivati al mediatichese, che dell' arte d'invadere cancerosamente i cervelli è l'espressione più sfacciata, e più ancora dove raggiunge purezza di tipo, nel discorso pubblicitario: "il linguaggio dei pubblicitari deve (...) scandalizzare il giusto, (essere) ammiccante quanto serve, banale ma mai in maniera evidente. Soprattutto deve scorrere via bene, non disturbare, non creare attriti. Un linguaggio con queste caratteristiche diventa immediatamente il prototipo di qualsiasi comunicazione di massa". (p. 77) Gemello diverso dell'o-scemo spottaròlo è il giornalese, in cui l'enfasi positiva che rigonfia il prodotto cambia segno, per farsi catastrofismo: e trìcc e dài il barbapedànna delle "emergenze", "rivoluzioni", "svolte", e delle caramelle al veleno quali "colossale ingorgo","esodo biblico", "strage del sabato sera" - e son quattro macchine tra vicolo Corto e vicolo Stretto, e son tre comitive di turisti al servizio lacuale a Nemi, e son i contromano che al venerdì si qualificano come "incidenti". Ma "qualsiasi fenomeno (deve venir) ricondotto sotto (poche) categorie ammesse": (p. 74) così il lettore viene teleguidato verso la "giusta" visione del mondo - quella sterile, preconfezionata, seguita passo passo perché non s'inquini co' germi d'autonomia operosa, come un platoncino di "carne italiana" del supermercato.

Salto, in questa rassegna, il giovanilese, perché infine è il meno virulento del ceppo, rimando al testo per le pur significative (per l'insignificanza) parole-squalo e parole-plastica, e arrivo all'irrealese, (cap. V) il più dannoso: lingua del nulla, è la lingua del potere, che detesta il concreto perché si rifà a un reale che spesso è fuori o contro il Palazzo. Invece essa adora l'astratto e vi celebra i suoi trionfi, siccome è assai più persuasivo e malleabile. Si costituisce così un'"anti-lingua" pregna di "terrore semantico" (l'Autore qui impresta da Calvino), che traduce ogni parola in un'altra "che esiste solo nel rapporto con l'autorità", (p. 85) dato che la parola in sé ha un carico di senso inevitabile ma inaccettabile: la guerra in sé è brutta, quindi dev'essere "giusta" o "umanitaria". L'arma uccide, perciò diverrà "intelligente" o "chirurgica", e vuoi mettere! Lo stato sociale non va smantellato, pare brutto: allora si "riforma" o "ristruttura".

Oppure la lingua del nulla opera come voleva Foucault, mutando geneticamente le parole per tramutare la realtà intollerabile: c'è troppa atrazina nell'acqua? Non la si dichiara tossica, si alzano i livelli di tolleranza. (p. 91) Non si rimuovono le barriere architettoniche, ma il cieco diviene "non vedente" e l'impedito fisico "diversamente abile". "I fatti ci dànno torto? Tanto peggio per i fatti!" (Vìlici)

Così, come nel newspeak orwelliano la parola "libero" ha senso solo nella frase "questo cane è libero da pulci", di "sfruttamento" si deve parlare solo se ci sono di mezzo le prostitute, (p. 35) e guai a chiamare "massa" gli individui sempre più indistinguibili che la compongono, credendo di "possedere prodotti esclusivi, di vivere vacanze personalizzate, di vestire firmato". (p. 34)

E, parlando di noi modaioli e consumisti e zebedèj, arriviamo a Pasolini - sempre lui, il vecchio zio Pèd-Pèèd-Pèèèd! Tutti a dargli addosso perché era apocalittico e viscerale, e bisogna dire che non ci andava liscio. Ma gli avrebbero dato retta, se non lo fosse stato? S'era scelto una tecnica retorica pericolosa, tuttavia difficile da troncare e sopire da parte dei padri molto reverendi, o da inglobare nel blobbettino televisionario, quindi inconsumabile (sadiana) e di sicuro effetto. Nella quale proclamare come sentita nei nervi e quindi viva la morte della realtà e degli esseri autentici che la abitavano: tutti a capire (o voler capire) che voleva i proletari senza frigo e televisore, e lui invece li voleva liberi di non inghiottire la merda, (Salò) cioè l'irrealtà, per non farsi merda, (Petrolio) cioè irreali - fatti cioè a viver come bruti da quell'assenza del reale espressa dalle preziose e chiare righe di Nardini ultime ricordate: parallela a quella costituzionale dell'"emitores", (Bianciardi) del consumista che ragiona consumisticamente, e dunque si sente grato e gratificato se trova all'ipermarkétte ottantasei tipi di carta per il culo (parlando di merdre), ma non gli passa per l'anticamera del cervello di avere in edicola ottantasei tipi di carta per il cervello - anzi, gli fanno càppa. (**) E' l'uomo rovesciato, che se gli fai notare queste cose ti aggredisce con l'accusa di voler tornare al "leopardo" (lo straccio dei cessi, col quale si nettava lo sfinterogeno una famiglia (patriarcale) intera), e ti chiede "perché non vai a vivere in Congo" - dimostrando ancora una volta l'efficacia della Nulla-lingua, che gli ha reso inconcepibile un mondo dove vi siano magari non ottantasei, ma tre tipi di carte culturistiche, perché la sua "personalità" gli viene lasciata esprimere solo nella "scelta" tra il doppio velo ovattato, il triplo velo con Dino Campana ("il velo! Il velo! Il velo!"), i dieci piani di morbidezza e la carta quadrupla alla camomilla per chiappe scalmanate - e quel "solo" va inteso nel senso che tutte le altre scelte, dalla sposa al politico da votare al modo di educare e di stare coi figli, seguono i medesimi criteri e sono dettati e pensati nella medesima lingua. Quest'uomo a rovescio si caca in bocca, e gli piace (er Pàsola ce l'ha mostrato), indi ricicla e profferisce stronzate (ce lo mostra Nardini): va dunque rimesso nell'usuale e distintiva stazione eretta insegnandogli, con paziente pedagogia, che la testa non è solo un bozzo a un metro dall'ano.

Ora che ho finito, vorrei ricordare un libretto illustrato da Altan, e dovuto alle penne congiunte di Paolo Flores d'Arcais filosofo e Giampiero Mughini oronzo. Strutturato come un dizionario, era un commento più che critico a quel gergo che, ahimè, era il mio per giovane età e condizione sociale e intellettiva: il famigerato "gauchiste" o "verzese" (Il piccolo sinistrese illustrato, SugarCo, Milano 1978(2)). Introducendolo, Giorgio Bocca lo diceva "un riempitivo di vuoti pneumatici" (p. 8), ed era anche questo. Ma se "quelli" avessero preso il potere, sarebbe diventato l'italiese di oggi. Però, il Palazzo d'Autunno-Inverno (stilisticamente) l'han preso gli altri: e abbiamo l'italiese conseguente. Tanto modellato da un'ideologia (e dalla censura che pertiene a essa dogmatica) come il suo germano: prova dunque che l'ideologia - come l'amor mio - non muore.

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(*) nel significato proprio di "paralisi", e in quello evocativo della sonorità "parl-", che rimanda appunto al parlare - noto che questa doppiezza coniuga un senso mentale a uno percettivo, e avviene anche negli ideogrammi, dove però la modalità estetica in gioco è quella visiva;

(**) "Imparare da fonti diverse può essere un compito estenuante per i non iniziati" (da Peter Phillips & Project Censored, Censura 2006, Nuovi Mondi Media, san Lazzaro di Savena (Bo) 2006, p. 19).



di Marco Lanzòl


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