CLASSICI
Alfredo Ronci
La solitudine del numero uno: ‘I miei amici’ di Emmanuel Bove.
Se la Francia c’ha messo cinquant’anni per rendere il dovuto omaggio ad uno scrittore straordinario (Flammarion pubblicò l’opera omnia solo nel 1999), l’Italia, tranne qualche sparuta iniziativa di editore minore (Casagrande, Le Mani…) ha steso un velo pietoso su Bove. Eppure le cose, negli anni novanta, esattamente nel 1991, sembravano essersi messe bene con la pubblicazione del primo romanzo I miei amici da parte della Feltrinelli.
Una delle storie più struggenti e dolorose del novecento letterario europeo: un uomo, invalido di una mano a causa della prima grande guerra, per la quale disabilità ha ottenuto una piccola pensione, gira per le strade di Parigi cercando inutilmente un’amicizia per rendere meno triste e spaventosa la sua esistenza.
La solitudine mi pesa dice il protagonista, Victor Baton, all’inizio di una sua disavventura: perché quel che vive, nonostante un’investigazione straziante dei rapporti umani, son solo fondi dell’esistere. Non basta una donna, proprietaria di una bottiglieria, che vuole fare sesso a rendergli meno pesante il tempo (‘Lucie Dunois’); non basta un apparente distinto signore, che lo invita a casa propria solo per poi chiedergli un prestito di 50 franchi che mai restituirà ad attenuare la sua solitudine (‘Henri Billard’); non basta un marinaio che vuole suicidarsi e che Victor aiuterà fino a spingerlo in un casino per un amplesso con una donnina ad alleggerirlo del peso dell’abbandono (‘Neveu, il marinaio’): Non avevo intenzione di morire, ma ispirare compassione mi è sempre piaciuto. Appena si avvicina un passante, mi nascondevo la faccia nelle mani e tiravo su col naso, come qualcuno che ha pianto; non basta un ricco parigino che gli regala 100 franchi e che poi lo rifiuterà per aver saputo che ha provato a rivolgere la parola alla giovanissima figlia ad affiancarlo dallo stupore del mondo (‘Monsieur Lacaze’); non gli è sufficiente far l’amore con una cantante di rivista per sentirsi meno disgraziato (‘Blanche’); non può essergli d’aiuto un uomo che lo assiste perché povero, ma che per filantropia aiuta molti altri (‘Un altro amico’).
Gli ‘amici’ del titolo, quelli che Victor vorrebbe per poter sopravvivere (… chiedo soltanto un po’ d’amicizia. So che è un segno di grande saggezza quello di non chiedere alle persone più di quanto possono dare. Bisogna prenderle per quello che sono. Io lo so. Sono saggio. Non chiedo che di prenderle come sono. Ma perfino questo mi viene negato… sono una sorta di estensione delle proprie insicurezze. Perché Victor, prima ancora di essere un uomo dannatamente solo, è una persona ingenua e piena di complessi: Non mi piace che mi si guardi la schiena mentre cammino. Mi fa camminare male. Penso sempre alle mie mani, ai tacchi e alla spalla troppo alta.
Roland Barthes affermava che è l’allucinazione dell’infimo dettaglio a dominare la letteratura di Bove: ed aveva perfettamente ragione. Gli oggetti e l’infinita piccolezza di questi sono la rappresentazione materiale, visiva dei piccoli pensieri dei suoi personaggi. E quest’ultimi sono ridotti all’osso, miseri, nella ricerca di una disposizione ancor più che umana, geografica nello stare al mondo. Questa miniaturizzazione dell’esistenza s’affianca ad un linguaggio secco ed essenziale, ridotto alla sua basilarità: Bove lo ‘condisce’ qua e là di improvvise illuminazioni e di inaspettati anacoluti (La sottana della signora Lecoin è fuori moda. La sua crocchia è così stretta che si vedono tutte le forcine. Spesso fissa lo sguardo su di me, ma io non mi fido, perché è molto probabile che voglia tendermi una trappola. D’altronde è senza petto).
I miei amici (1924) è il capolavoro dell’inazione: Victor sembra anelare una dimensione sociale, ma i suoi non sono tentativi per sottrarsi alla solitudine, sono solo aborti di un processo inarrestabile verso l’emarginazione. L’uomo ne è perfettamente cosciente, perché di fronte all’ennesima delusione dice: Certi uomini forti non sono soli nella solitudine, ma io che sono debole, sono solo quando non ho nessun amico.
Forse questo era anche il destino di Bove: dopo l’uscita, nel 1945, de La trappola che investigava sul collaborazionismo francese durante l’occupazione nazista, allo scrittore fu riservato un trattamento poco civile da parte di una intelligencija ancora non incline a fare i conti col proprio vergognoso passato. Sembrò una colpa dell’uomo anticipare altri scrittori e altre tematiche: c’è voluto mezzo secolo per restituirgli il mal tolto.
I miei amici è un romanzo triste, mesto, angoscioso e disperato: nonostante ciò se ne esce con un’idea moltiplicata della joie de vivre, come se la solitudine si possa, omeopaticamente, combattere con più o meno piccole dosi di inquietudine.
L’edizione da noi considerata è:
Emmanuel Bove
I miei amici
Feltrinelli - 1991
Una delle storie più struggenti e dolorose del novecento letterario europeo: un uomo, invalido di una mano a causa della prima grande guerra, per la quale disabilità ha ottenuto una piccola pensione, gira per le strade di Parigi cercando inutilmente un’amicizia per rendere meno triste e spaventosa la sua esistenza.
La solitudine mi pesa dice il protagonista, Victor Baton, all’inizio di una sua disavventura: perché quel che vive, nonostante un’investigazione straziante dei rapporti umani, son solo fondi dell’esistere. Non basta una donna, proprietaria di una bottiglieria, che vuole fare sesso a rendergli meno pesante il tempo (‘Lucie Dunois’); non basta un apparente distinto signore, che lo invita a casa propria solo per poi chiedergli un prestito di 50 franchi che mai restituirà ad attenuare la sua solitudine (‘Henri Billard’); non basta un marinaio che vuole suicidarsi e che Victor aiuterà fino a spingerlo in un casino per un amplesso con una donnina ad alleggerirlo del peso dell’abbandono (‘Neveu, il marinaio’): Non avevo intenzione di morire, ma ispirare compassione mi è sempre piaciuto. Appena si avvicina un passante, mi nascondevo la faccia nelle mani e tiravo su col naso, come qualcuno che ha pianto; non basta un ricco parigino che gli regala 100 franchi e che poi lo rifiuterà per aver saputo che ha provato a rivolgere la parola alla giovanissima figlia ad affiancarlo dallo stupore del mondo (‘Monsieur Lacaze’); non gli è sufficiente far l’amore con una cantante di rivista per sentirsi meno disgraziato (‘Blanche’); non può essergli d’aiuto un uomo che lo assiste perché povero, ma che per filantropia aiuta molti altri (‘Un altro amico’).
Gli ‘amici’ del titolo, quelli che Victor vorrebbe per poter sopravvivere (… chiedo soltanto un po’ d’amicizia. So che è un segno di grande saggezza quello di non chiedere alle persone più di quanto possono dare. Bisogna prenderle per quello che sono. Io lo so. Sono saggio. Non chiedo che di prenderle come sono. Ma perfino questo mi viene negato… sono una sorta di estensione delle proprie insicurezze. Perché Victor, prima ancora di essere un uomo dannatamente solo, è una persona ingenua e piena di complessi: Non mi piace che mi si guardi la schiena mentre cammino. Mi fa camminare male. Penso sempre alle mie mani, ai tacchi e alla spalla troppo alta.
Roland Barthes affermava che è l’allucinazione dell’infimo dettaglio a dominare la letteratura di Bove: ed aveva perfettamente ragione. Gli oggetti e l’infinita piccolezza di questi sono la rappresentazione materiale, visiva dei piccoli pensieri dei suoi personaggi. E quest’ultimi sono ridotti all’osso, miseri, nella ricerca di una disposizione ancor più che umana, geografica nello stare al mondo. Questa miniaturizzazione dell’esistenza s’affianca ad un linguaggio secco ed essenziale, ridotto alla sua basilarità: Bove lo ‘condisce’ qua e là di improvvise illuminazioni e di inaspettati anacoluti (La sottana della signora Lecoin è fuori moda. La sua crocchia è così stretta che si vedono tutte le forcine. Spesso fissa lo sguardo su di me, ma io non mi fido, perché è molto probabile che voglia tendermi una trappola. D’altronde è senza petto).
I miei amici (1924) è il capolavoro dell’inazione: Victor sembra anelare una dimensione sociale, ma i suoi non sono tentativi per sottrarsi alla solitudine, sono solo aborti di un processo inarrestabile verso l’emarginazione. L’uomo ne è perfettamente cosciente, perché di fronte all’ennesima delusione dice: Certi uomini forti non sono soli nella solitudine, ma io che sono debole, sono solo quando non ho nessun amico.
Forse questo era anche il destino di Bove: dopo l’uscita, nel 1945, de La trappola che investigava sul collaborazionismo francese durante l’occupazione nazista, allo scrittore fu riservato un trattamento poco civile da parte di una intelligencija ancora non incline a fare i conti col proprio vergognoso passato. Sembrò una colpa dell’uomo anticipare altri scrittori e altre tematiche: c’è voluto mezzo secolo per restituirgli il mal tolto.
I miei amici è un romanzo triste, mesto, angoscioso e disperato: nonostante ciò se ne esce con un’idea moltiplicata della joie de vivre, come se la solitudine si possa, omeopaticamente, combattere con più o meno piccole dosi di inquietudine.
L’edizione da noi considerata è:
Emmanuel Bove
I miei amici
Feltrinelli - 1991
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