RECENSIONI
Giovanni De Feo
La stanza senza fine
Mondadori, Pag. 375 Euro 17,00
Da questa lettura si uscirà avendo acquisito un nuovo verbo: spaginare. Mi si dirà che la parola non è nuova, e che si adopera per indicare l’azione di disfare un libro, scomporne le pagine. Qui però ne troviamo un’accezione completamente nuova e unica. Si tratta di un’azione impossibile nella realtà, ma non nel mondo fantastico in cui si addentra il protagonista di questa storia. Spaginare: passare da una foto all’altra. Non con lo sguardo, ma proprio saltandoci dentro, aggrappati a qualche appiglio di fortuna offerto dal paesaggio, a volte anche molto in fretta se si è inseguiti da un nemico. E un nemico c’è sempre, anzi proprio il Nemico, quello con la maiuscola. L’antagonista che non manca in ogni fiaba che si rispetti.
Questa trovata geniale, di potersi muovere dentro le fotografie, è il punto di forza del romanzo. Non è la prima volta, è vero, che un personaggio entra in un quadro o in un libro accedendo così a un altro mondo. Ma la novità è che il protagonista ha sempre la percezione di trovarsi dentro una foto, con tutte le caratteristiche e le problematiche del caso: ci sono dei margini con cui fare i conti, c’è la necessità di orientarsi tenendo conto delle foto limitrofe, ci sono figure mosse o sfocate e altre figure che non si potranno mai vedere per intero perché parzialmente nascoste dietro un angolo. Insomma, chi entra nella foto entra anche in un sistema di regole. Personalmente credo che ci sia da farsi tremare i polsi a maneggiare una materia così particolare anche solo per la durata di un racconto, ma De Feo non sembra avvertire alcuna difficoltà a far muovere il protagonista dentro un ambiente così congegnato, anzi lo accompagna per un tratto piuttosto lungo. Forse anche un po’ troppo lungo, perché è mia impressione che uno sfoltimento di pagine avrebbe giovato all’insieme del libro. Per carità, non ci si annoia affatto, e viene sempre mantenuto un buon ritmo, dico solo che la conclusione viene forse troppo differita.
Una questione a parte è l’individuazione del lettore destinatario. È vero che si presenta come un romanzo per ragazzi, e il protagonista è appunto un ragazzino di circa undici anni. Ma la mia impressione è che questo libro contenga due romanzi in uno. C’è una storia che racconta le avventure di Nico, incappato in una misteriosa camera oscura, tappezzata di foto, in cui scopre il potere di entrarci dentro e interagire con i soggetti raffigurati fino a pensare di poterne cambiare le sorti. Ci sono misteri, indagini e inseguimenti fatti e subìti, con il relativo bagaglio di emozioni. Però c’è anche un’altra storia, dal decorso parallelo, che sembra chiamare in causa i lettori più adulti: è la mai risolta questione della memoria, il rapporto con il passato e il delicato equilibrio dei ricordi fra realtà e fantasia, fra nostalgie e sensi di colpa. È l’intricata matassa di relazioni che costituisce la storia di ogni famiglia. È l’evocazione di quel piacere doloroso che si prova riguardando vecchie foto, la cui usura pare la rappresentazione materiale dell’usura dei ricordi. C’è chi butta via tutto in un anelito di liberazione e chi conserva a oltranza nell’illusione di fermare il tempo. Fra le persone che conosco ce n’è dell’uno e dell’altro tipo, e ancor più c’è chi oscilla in bilico fra impulsi contraddittori. Sto divagando? No, queste sono proprio le riflessioni che scaturiscono dal libro. Poi, a voler andare sul filosofico, ci sarebbe da tirare in ballo Eraclito e Parmenide, ma niente paura, l’autore tratta l’argomento con quell’apparente leggerezza che lascia tranquilli i più giovani mentre offre agli anziani la trasparenza di una carta velina.
Personalmente, ho apprezzato più di ogni altra cosa la ricostruzione di certe scene urbane ispirate alle foto di una volta in bianco e nero, quelle che citano le “città sparite”, con quel sapore di antico che restituisce però la freschezza di certe figure popolane colte nella quotidianità. Soprattutto ho trovato gustosa la ricostruzione di un vecchio mercato rionale. Quei mercati dove ci si sgolava in continuazione con certe grida particolari rispondenti a canoni tramandati da generazioni. Dove i monelli rubavano il cibo dai banchi, animati forse dall’eccitazione dell’avventura ma spesso spinti dai morsi della fame.
Opera non comune, tale da farsi ricordare, questo romanzo di De Feo. L’eleganza dell’impaginazione fa a gara con l’eleganza del linguaggio, fluente ma con un tocco d’antico. Fra tutte mi è rimasta impressa una frase che ho sentito particolarmente vera:
Ma in fondo, non era poi quello che facevano tutte le fotografie? Ci lasciavano abitare le nostalgie degli altri come fossero le nostre.
di Giovanna Repetto
Questa trovata geniale, di potersi muovere dentro le fotografie, è il punto di forza del romanzo. Non è la prima volta, è vero, che un personaggio entra in un quadro o in un libro accedendo così a un altro mondo. Ma la novità è che il protagonista ha sempre la percezione di trovarsi dentro una foto, con tutte le caratteristiche e le problematiche del caso: ci sono dei margini con cui fare i conti, c’è la necessità di orientarsi tenendo conto delle foto limitrofe, ci sono figure mosse o sfocate e altre figure che non si potranno mai vedere per intero perché parzialmente nascoste dietro un angolo. Insomma, chi entra nella foto entra anche in un sistema di regole. Personalmente credo che ci sia da farsi tremare i polsi a maneggiare una materia così particolare anche solo per la durata di un racconto, ma De Feo non sembra avvertire alcuna difficoltà a far muovere il protagonista dentro un ambiente così congegnato, anzi lo accompagna per un tratto piuttosto lungo. Forse anche un po’ troppo lungo, perché è mia impressione che uno sfoltimento di pagine avrebbe giovato all’insieme del libro. Per carità, non ci si annoia affatto, e viene sempre mantenuto un buon ritmo, dico solo che la conclusione viene forse troppo differita.
Una questione a parte è l’individuazione del lettore destinatario. È vero che si presenta come un romanzo per ragazzi, e il protagonista è appunto un ragazzino di circa undici anni. Ma la mia impressione è che questo libro contenga due romanzi in uno. C’è una storia che racconta le avventure di Nico, incappato in una misteriosa camera oscura, tappezzata di foto, in cui scopre il potere di entrarci dentro e interagire con i soggetti raffigurati fino a pensare di poterne cambiare le sorti. Ci sono misteri, indagini e inseguimenti fatti e subìti, con il relativo bagaglio di emozioni. Però c’è anche un’altra storia, dal decorso parallelo, che sembra chiamare in causa i lettori più adulti: è la mai risolta questione della memoria, il rapporto con il passato e il delicato equilibrio dei ricordi fra realtà e fantasia, fra nostalgie e sensi di colpa. È l’intricata matassa di relazioni che costituisce la storia di ogni famiglia. È l’evocazione di quel piacere doloroso che si prova riguardando vecchie foto, la cui usura pare la rappresentazione materiale dell’usura dei ricordi. C’è chi butta via tutto in un anelito di liberazione e chi conserva a oltranza nell’illusione di fermare il tempo. Fra le persone che conosco ce n’è dell’uno e dell’altro tipo, e ancor più c’è chi oscilla in bilico fra impulsi contraddittori. Sto divagando? No, queste sono proprio le riflessioni che scaturiscono dal libro. Poi, a voler andare sul filosofico, ci sarebbe da tirare in ballo Eraclito e Parmenide, ma niente paura, l’autore tratta l’argomento con quell’apparente leggerezza che lascia tranquilli i più giovani mentre offre agli anziani la trasparenza di una carta velina.
Personalmente, ho apprezzato più di ogni altra cosa la ricostruzione di certe scene urbane ispirate alle foto di una volta in bianco e nero, quelle che citano le “città sparite”, con quel sapore di antico che restituisce però la freschezza di certe figure popolane colte nella quotidianità. Soprattutto ho trovato gustosa la ricostruzione di un vecchio mercato rionale. Quei mercati dove ci si sgolava in continuazione con certe grida particolari rispondenti a canoni tramandati da generazioni. Dove i monelli rubavano il cibo dai banchi, animati forse dall’eccitazione dell’avventura ma spesso spinti dai morsi della fame.
Opera non comune, tale da farsi ricordare, questo romanzo di De Feo. L’eleganza dell’impaginazione fa a gara con l’eleganza del linguaggio, fluente ma con un tocco d’antico. Fra tutte mi è rimasta impressa una frase che ho sentito particolarmente vera:
Ma in fondo, non era poi quello che facevano tutte le fotografie? Ci lasciavano abitare le nostalgie degli altri come fossero le nostre.
di Giovanna Repetto
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