CLASSICI
Alfredo Ronci
Ma chi è questa raccontatrice?: “Angelici dolori” di Anna Maria Ortese.
Ma chi era mai questa giovane scrittrice che nel 1937 partorisce questa serie di racconti per i quali era difficile trovare un punto di riferimento, una scuola di pensiero o addirittura un segnale comportamentale?
Mi chiedo: come fu possibile che nel pieno fascismo, in un momento in cui era pericoloso divergere dal senso comune, potesse emergere una figura così distinta e diversa, una scrittrice così personale ma lontana da qualsivoglia accademia, una donna così intensa?
E’ vera una cosa (ma anche parziale): Anna Maria Ortese si è incamminata fin dall’inizio della sua attività letteraria su un sentiero che ci è sembrato costeggiare diverse aree – il realismo magico di Bontcempelli (leggetevi, se qualcuno riesce a mettere le mani sull’edizione stampata da Bompiani, le parole piene di miracolo redatte dallo scrittore), il neorealismo (anche qui, lo si cita, ma non sempre sembra adatto a qualificare l’essenza della scrittura della Ortese) e pure il surrealismo.
Tutto bene, ma manca qualcosa ancora che stabilisca la verità sull’arte della scrittrice. Il suo stesso itinerario di vita lo dimostra: un’esistenza precaria, quasi randagia, che non si è mai sentita a suo agio nelle strutture sociali (figuriamoci i premi e le mostre letterarie). Si sapeva soltanto che abbandonò gli studi per dedicarsi, senza troppo ardore, allo studio del pianoforte. Di certo si sa che rimase profondamente colpita dalla morte del fratello, Manuele, a cui dedicò una poesia, che porta lo stesso nome e che fu pubblicata nel 1933 su Italia letteraria.
Nel 1937 arriva Angelici dolori. E fu, nonostante tutto, un avvenimento (dobbiamo ricordare le parole che scrisse Manganelli sulla Ortese? Basta leggere tre, quattro pagine, e vediamo scomparire scaffali su scaffali di libri contemporanei). Su questo libro sono state dette molte cose (e come non sarebbe possibile con una scrittrice come la Ortese?), sia i critici, sia il semplice lettore, addirittura i colleghi di lavoro hanno provato a dare un quid a quest’arte, ma in ogni caso si ritorna al problema principale, cioè che tutto sembra spiegabile ma c’è una sostanza, tutta interna alla scrittrice, che allontana, ci allontana, da quella che in gergo giallistico potrebbe sembrare una soluzione definitiva.
Dice Luca Clerici alla ristampa del libro, con aggiunta di altri racconti, realizzata da Adelphi, nel 2006: in Angelici dolori si racconta il fascino dell’infanzia, la conquista dell’espressività, il dolore dell’innamoramento, la diffidenza per il mondo adulto, ma anche l’universo familiare e la città di Napoli.
Ok, sembra tutto giusto, ma nell’analisi di Clerici manca altro, soprattutto (e non mi si dica che è un aspetto del tutto secondario, ahinoi!) l’elemento fisico del tempo. Meglio ancora, la espressione della natura nei momenti migliori, ma anche peggiori, dell’esistenza. E attraverso queste manifestazioni si realizza tutto quello già correttamente indicato.
Si diceva prima del dolore dell’innamoramento. Certo, lo è, ma c’è anche la piena consapevolezza del sentire le cose (del sentire le proprie cose): Come si sarà notato, io lo chiamavo sempre “signore”, e non senza motivo: bisognando infatti, alla pienezza della mia dedizione, risentir costante l’eco della potenza e sovranità di lui, del suo dominio, in una parola. Egli doveva, all’opposto, considerarmi come un suo trascurabile balocco, un trastullo docile e – direi – silenzioso. Egli conversare, comandare, ammonire, voltare, spezzare, ridere. Io, ecco.
Sembrerebbe un’idea della donna molto diversa da quella che è la realtà, ma nella Ortese nulla di quanto succede è confrontabile con altre situazioni. Anche la composizione stessa dei racconti si realizza con uno stile che a prima vista potrebbe ricordare certe situazioni letterarie ottocentesche (mi verrebbe da dire, quasi uno stile anglosassone), ma che poi si dispiega con avvenimenti ed istanze che sembrano appartenere ad altro. Tipo, per esempio, il racconto La villa dove la protagonista vede (comunque immagina di vedere) Gesù e la Madonna. Esempio di una religiosità che avrebbe fatto a pugni con un’idea anglosassone della religione.
E su tutto, ancora una volta, la straordinaria presenza della natura e i ricordi, angelici e dolorosi, di lei: Vi era poi il mare, veramente libero, allegro, selvaggio, che della minima cosa rideva, e sempre domandava di me. Non vi era mai barca, essendo il nostro paese o isola perfettamente sconosciuto sulle carte di marina, non segnalato in alcuna rotta, non ricordato da nessuno anche vecchissimo pilota: dimenticato era dagli uomini.
L’edizione da noi considerata è.
Anna Maria Ortese
Angelici dolori
Bompiani
Mi chiedo: come fu possibile che nel pieno fascismo, in un momento in cui era pericoloso divergere dal senso comune, potesse emergere una figura così distinta e diversa, una scrittrice così personale ma lontana da qualsivoglia accademia, una donna così intensa?
E’ vera una cosa (ma anche parziale): Anna Maria Ortese si è incamminata fin dall’inizio della sua attività letteraria su un sentiero che ci è sembrato costeggiare diverse aree – il realismo magico di Bontcempelli (leggetevi, se qualcuno riesce a mettere le mani sull’edizione stampata da Bompiani, le parole piene di miracolo redatte dallo scrittore), il neorealismo (anche qui, lo si cita, ma non sempre sembra adatto a qualificare l’essenza della scrittura della Ortese) e pure il surrealismo.
Tutto bene, ma manca qualcosa ancora che stabilisca la verità sull’arte della scrittrice. Il suo stesso itinerario di vita lo dimostra: un’esistenza precaria, quasi randagia, che non si è mai sentita a suo agio nelle strutture sociali (figuriamoci i premi e le mostre letterarie). Si sapeva soltanto che abbandonò gli studi per dedicarsi, senza troppo ardore, allo studio del pianoforte. Di certo si sa che rimase profondamente colpita dalla morte del fratello, Manuele, a cui dedicò una poesia, che porta lo stesso nome e che fu pubblicata nel 1933 su Italia letteraria.
Nel 1937 arriva Angelici dolori. E fu, nonostante tutto, un avvenimento (dobbiamo ricordare le parole che scrisse Manganelli sulla Ortese? Basta leggere tre, quattro pagine, e vediamo scomparire scaffali su scaffali di libri contemporanei). Su questo libro sono state dette molte cose (e come non sarebbe possibile con una scrittrice come la Ortese?), sia i critici, sia il semplice lettore, addirittura i colleghi di lavoro hanno provato a dare un quid a quest’arte, ma in ogni caso si ritorna al problema principale, cioè che tutto sembra spiegabile ma c’è una sostanza, tutta interna alla scrittrice, che allontana, ci allontana, da quella che in gergo giallistico potrebbe sembrare una soluzione definitiva.
Dice Luca Clerici alla ristampa del libro, con aggiunta di altri racconti, realizzata da Adelphi, nel 2006: in Angelici dolori si racconta il fascino dell’infanzia, la conquista dell’espressività, il dolore dell’innamoramento, la diffidenza per il mondo adulto, ma anche l’universo familiare e la città di Napoli.
Ok, sembra tutto giusto, ma nell’analisi di Clerici manca altro, soprattutto (e non mi si dica che è un aspetto del tutto secondario, ahinoi!) l’elemento fisico del tempo. Meglio ancora, la espressione della natura nei momenti migliori, ma anche peggiori, dell’esistenza. E attraverso queste manifestazioni si realizza tutto quello già correttamente indicato.
Si diceva prima del dolore dell’innamoramento. Certo, lo è, ma c’è anche la piena consapevolezza del sentire le cose (del sentire le proprie cose): Come si sarà notato, io lo chiamavo sempre “signore”, e non senza motivo: bisognando infatti, alla pienezza della mia dedizione, risentir costante l’eco della potenza e sovranità di lui, del suo dominio, in una parola. Egli doveva, all’opposto, considerarmi come un suo trascurabile balocco, un trastullo docile e – direi – silenzioso. Egli conversare, comandare, ammonire, voltare, spezzare, ridere. Io, ecco.
Sembrerebbe un’idea della donna molto diversa da quella che è la realtà, ma nella Ortese nulla di quanto succede è confrontabile con altre situazioni. Anche la composizione stessa dei racconti si realizza con uno stile che a prima vista potrebbe ricordare certe situazioni letterarie ottocentesche (mi verrebbe da dire, quasi uno stile anglosassone), ma che poi si dispiega con avvenimenti ed istanze che sembrano appartenere ad altro. Tipo, per esempio, il racconto La villa dove la protagonista vede (comunque immagina di vedere) Gesù e la Madonna. Esempio di una religiosità che avrebbe fatto a pugni con un’idea anglosassone della religione.
E su tutto, ancora una volta, la straordinaria presenza della natura e i ricordi, angelici e dolorosi, di lei: Vi era poi il mare, veramente libero, allegro, selvaggio, che della minima cosa rideva, e sempre domandava di me. Non vi era mai barca, essendo il nostro paese o isola perfettamente sconosciuto sulle carte di marina, non segnalato in alcuna rotta, non ricordato da nessuno anche vecchissimo pilota: dimenticato era dagli uomini.
L’edizione da noi considerata è.
Anna Maria Ortese
Angelici dolori
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