RECENSIONI
Donatella Di Pietrantonio
Mia madre è un fiume
Elliot, Pag. 179 Euro 16,00
Esordio dell'outsider abruzzese Donatella Di Pietrantonio, da Penne, Mia madre è un fiume è una vertiginosa discesa nel passato d'una madre. La madre non è soltanto la mamma della narratrice, malata d'un male che le sta strappando via i ricordi e la memoria, e prima o poi finirà di nutrirsi della sua essenza. La madre è la terra della narratrice, quell'Abruzzo che andrà incontro a una brusca metamorfosi nel periodo che va dalla tragedia della Seconda Guerra agli anni Sessanta-Settanta, quelli del boom e della prima crisi, stravolgendo abitudini, mestieri e cultura contadina originaria e abbracciando benessere, prassi e tecnologie industriali.
Delle opere prime più oneste e dignitose Mia madre è un fiume ha la sconnessione, la superba emotività, qualche pretesa di letterarietà e un pizzico di sacrosanta artificiosità: innervata da un tono favolistico che non sarebbe dispiaciuto, forse, al giovane Bertolucci che voleva raccontare com'era la vita nei campi – meglio, all'ispirato Ermanno Olmi del vecchio Albero degli zoccoli. Da un punto di vista più strettamente letterario, è un'opera atipica che potrebbe essere assimilata, per certi aspetti, al vecchio Zebio Còtal di Guido Cavani, caro a Pasolini (nonostante v'avesse riconosciuto "un estremo, sfinito prodotto del verismo verghiano, filtrato magari attraverso le dannunziane Novelle della Pescara). Decisamente fuori dal tempo, Mia madre è un fiume ha una sua grazia agreste e una sua poesia rurale. Per me si sprigionano entrambe, con prepotenza, in questo passo: Una volta all'anno andavi con gli altri a cacciare le pietre. Nessuno lo fa più. Le prendevi strappandole, se necessario, alla crosta del pianeta che già le integrava e le trasportavi verso un mucchio al centro del campo. Alla fine la terra era libera per il lavoro, ma in pochi mesi si sarebbe nuovamente riempita, come d'incanto. Il cumulo aumentava con il tempo, ospitava le lucertole, qualche serpente, i rovi ci crescevano attorno e poi anche sopra. I bambini volevano caccia' il prete nel periodo delle more per papparsele, ma anche per pitturare con le più mature le facce piatte dei sassi. Ci dipingevate i personaggi della famiglia: Fioravante con i baffi a manubrio, Clo dalle orecchie a sventola e te stessa con un favo di capelli. Poi li facevate parlare tra di loro e magari anche litigare cozzandoli uno contro l'altro. Erano i vostri burattini (pag.39-40).
Altro elemento interessante è il richiamo all'emigrazione. È molto raro sentir parlare dell'emigrazione degli italiani all'estero – i nostri narratori hanno sempre avuto grande pudore, in questo senso, con rare eccezioni. Noi italiani continuiamo ad emigrare, nel 2011, certo con meno disperazione (per diverse cause: non più per sopravvivere, almeno non sempre): ma neanche noi contemporanei riusciamo a parlare della nuova emigrazione. Non è un problema culturale o generazionale, è un guasto strutturale. È il nostro tabù di popolo di emigranti: a sentire i nostri romanzi sono sempre gli altri popoli, a emigrare. L'emigrazione è una questione esotica. Come no.
Su tutto, si staglia la trasfigurazione del dolore nella relazione tra l'io narrante e la madre. Guardo alle spalle il giardino di sentieri che si biforcano. Le posso solo affabulare la sua vita, scrive la narratrice. Altrove: Certe volte la odio. Ora, che guido verso di lei. Odio il tempo che mi costa. Quando vado via sono vuota, sfinita, non ricordo nulla - e tutto è dolorosamente e incredibilmente vero, e terribilmente cupo e umano. Lei sembra troppo giovane per questo, non è pronta. Non siamo pronte. La narratrice cura la mamma, con la speranza di rallentare il decorso del male. Ma intanto già sa: Quando morirà sprofonderò nella colpa che mi vado costruendo giorno per giorno. La colpa è vuota. È il vuoto delle mie omissioni. Ometto l'amore, le mani. E ciò che rimane è parlare e sognare e ricordare. E trovare la disperata onestà di guardare nel proprio abisso, infine. Di domandarsi a cosa assomiglia. Da dove e da chi si discende, invece, la narratrice l'ha capito.
di Gianfranco Franchi
Delle opere prime più oneste e dignitose Mia madre è un fiume ha la sconnessione, la superba emotività, qualche pretesa di letterarietà e un pizzico di sacrosanta artificiosità: innervata da un tono favolistico che non sarebbe dispiaciuto, forse, al giovane Bertolucci che voleva raccontare com'era la vita nei campi – meglio, all'ispirato Ermanno Olmi del vecchio Albero degli zoccoli. Da un punto di vista più strettamente letterario, è un'opera atipica che potrebbe essere assimilata, per certi aspetti, al vecchio Zebio Còtal di Guido Cavani, caro a Pasolini (nonostante v'avesse riconosciuto "un estremo, sfinito prodotto del verismo verghiano, filtrato magari attraverso le dannunziane Novelle della Pescara). Decisamente fuori dal tempo, Mia madre è un fiume ha una sua grazia agreste e una sua poesia rurale. Per me si sprigionano entrambe, con prepotenza, in questo passo: Una volta all'anno andavi con gli altri a cacciare le pietre. Nessuno lo fa più. Le prendevi strappandole, se necessario, alla crosta del pianeta che già le integrava e le trasportavi verso un mucchio al centro del campo. Alla fine la terra era libera per il lavoro, ma in pochi mesi si sarebbe nuovamente riempita, come d'incanto. Il cumulo aumentava con il tempo, ospitava le lucertole, qualche serpente, i rovi ci crescevano attorno e poi anche sopra. I bambini volevano caccia' il prete nel periodo delle more per papparsele, ma anche per pitturare con le più mature le facce piatte dei sassi. Ci dipingevate i personaggi della famiglia: Fioravante con i baffi a manubrio, Clo dalle orecchie a sventola e te stessa con un favo di capelli. Poi li facevate parlare tra di loro e magari anche litigare cozzandoli uno contro l'altro. Erano i vostri burattini (pag.39-40).
Altro elemento interessante è il richiamo all'emigrazione. È molto raro sentir parlare dell'emigrazione degli italiani all'estero – i nostri narratori hanno sempre avuto grande pudore, in questo senso, con rare eccezioni. Noi italiani continuiamo ad emigrare, nel 2011, certo con meno disperazione (per diverse cause: non più per sopravvivere, almeno non sempre): ma neanche noi contemporanei riusciamo a parlare della nuova emigrazione. Non è un problema culturale o generazionale, è un guasto strutturale. È il nostro tabù di popolo di emigranti: a sentire i nostri romanzi sono sempre gli altri popoli, a emigrare. L'emigrazione è una questione esotica. Come no.
Su tutto, si staglia la trasfigurazione del dolore nella relazione tra l'io narrante e la madre. Guardo alle spalle il giardino di sentieri che si biforcano. Le posso solo affabulare la sua vita, scrive la narratrice. Altrove: Certe volte la odio. Ora, che guido verso di lei. Odio il tempo che mi costa. Quando vado via sono vuota, sfinita, non ricordo nulla - e tutto è dolorosamente e incredibilmente vero, e terribilmente cupo e umano. Lei sembra troppo giovane per questo, non è pronta. Non siamo pronte. La narratrice cura la mamma, con la speranza di rallentare il decorso del male. Ma intanto già sa: Quando morirà sprofonderò nella colpa che mi vado costruendo giorno per giorno. La colpa è vuota. È il vuoto delle mie omissioni. Ometto l'amore, le mani. E ciò che rimane è parlare e sognare e ricordare. E trovare la disperata onestà di guardare nel proprio abisso, infine. Di domandarsi a cosa assomiglia. Da dove e da chi si discende, invece, la narratrice l'ha capito.
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