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Il Paradiso degli Orchi
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RECENSIONI

Gianni Biondillo

Nel nome del padre

Guanda, Pag 193 Euro 14,50
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D'accordo, il tema merita. I padri separati penalizzati da una legislazione sbilanciata in modo smaccato in favore delle donne, o meglio, dei genitori affidatari, che sono quasi sempre le donne. Una scelta esistenziale, la separazione fa due coniugi con prole, o un destino inevitabile, quello che si vuole, che s'incancrenisce in un impasto malato di ragioni economiche, ricatti emotivi, agonie affettive e tracolli sociali: il merito di averne trattato, all'autore glielo riconosciamo. Bastasse il tema, però, un libro sarebbe fatto in un secondo. Bastasse il tema, ci sarebbero milioni di scrittori al mondo, chi più chi meno sensibile a questo o a quello, chi più chi meno sul punto, al momento giusto, o munito di antenne vigilissime che riafferrano onde psichiche lasciate sotto traccia dal rumore bianco in cui siamo immersi.

Pertanto, se proprio il legislatore non ce la fa e vogliamo utilizzare l'argomento per un racconto espressivo – letteratura, diciamo? – mica lo vieta nessuno. Anzi, può essere una faccenda molto interessante. Purché non ne facciamo una storia didascalica, un repertorio di banalità, goffamente addomesticate da un tentativo maldestro di accattivarsi la simpatia, se non l'indulgenza, del lettore, come fa il narratore (presago del suo lavoro) a pagina 16: di due personaggi che rinunciano dopo i sogni di gloria alla musica, dice che "hanno appeso lo strumento al chiodo". Sicché, egli stesso aggiunge fra parentesi "(Che brutto modo di dire. Perché continuiamo a parlare per modi di dire? Quale vuoto nascondiamo dietro queste frasi fatte?)"

Non tocca certo a noi dare una risposta. Il fatto è che Biondillo, noto per una serie di romanzi gialli che hanno goduto di un certo credito fra i lettori, con questa lingua scialba, satura di frasi fatte, sembra andarci a nozze. Il catalogo di luoghi comuni è fitto, e non si vorrebbe essere impietosi. Estrapoliamo solo qualche frammento (e per la verifica decida il lettore se ne vale la pena). Il protagonista, il padre disgraziato del titolo, che una ex moglie stronzissima costringerà a meditare il suicidio, è in un bar con Sandro, il suo migliore amico (scopriremo solo verso la fine che è con lui che la moglie lo tradiva, soluzione non proprio originale, ma tant'è). Li serve al tavolo una cameriera cilena. Sandro è uno che di solito con le donne ci prova, quindi lo fa anche con lei. Ordina fra l'altro un bicchiere di vino. – Rosso? – dice la donna. E lui risponde – Rosso. Caliente...

Qualche riga dopo, Sandro e l'amico continuano come sopra, fino a quando uno fa all'altro – Ma smettila, magari è pure fidanzata. – E il secondo – Qual è il problema? Io non sono mica geloso...

Si potrebbe obiettare che a parlare così, con queste battutine terra terra, sono i personaggi. Che tocca beccarceli per quello che sono, schematici, banali. Che se la donna non ha più voglia di scopare con il marito e comincia con l'accampare l'eterno, cosmologico "mal di testa", l'autore non ha fatto altro che registralo, trascriverlo pari pari. Peccato però che la voce narrante s'intoni con disinvoltura a questa faciloneria (e non parliamo, beninteso, di indiretto libero, che sarebbe questione diversa). I "bastoni fra le ruote", le cose che accadono "in fieri", " l'infanzia che è "un amalgama di sensazioni", essere "felice come una pasqua"... insomma per un autore che in una recente intervista radiofonica ha rivendicato il merito di una "scrittura molto letteraria", questi non ci sembrano esiti folgoranti.

Il libro ha uno scatto di tensione solo nella parte centrale e le soluzioni drammaturgiche non sembrano originali, piegate all'esigenza di un racconto troppo "dimostrativa" per essere convincente sul piano letterario. I dialoghi sono quelli di una fiction televisiva, e con una così lingua blanda, molto "rai", molto "un posto al sole", non si fa un libro ambizioso.



di Michele Lupo


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