RECENSIONI
John Harvey
Nick's Blues
Mattioli 1885, Pag. 167 Euro 16,00
Il salingerismo non è una moda, sembra quasi una professione: come quella di coloro i quali si riempiono costantemente la bocca di parole abusate nel tentativo ormai misero e sorpassato di dare originalità non solo a chi non l'ha mai avuta, ma soprattutto a chi ha conquistato l'immortalità grazie ad un furbo stratagemma.
E non mi chiedete oltre de Il giovane Holden: ho già dato.
Eppure, nonostante le bandelle dei libri 'strillino' in continuazione che il nuovo Salinger sia dietro l'angolo (Costanzo negli anni scorsi aveva l'assillo del cosa ci fosse: questa mi pare una risposta spiritosa, accettabile e gustosamente sopra le righe), alla fine si riesce persino, in questo mondo di letterati 'spinti' (spinti da che ce lo chiediamo in continuazione) a spremere sangue da una rapa.
In realtà Nick's blues è più di un estratto vegetale, seppur di sostanza: è un libro che fa delle leggerezza e dell'amabilità elementi mai disgiunti da un mestiere quasi artigianale.
E qui, se vogliamo, potremmo spingerci oltre: del perché non si comprenda come mai la letteratura giovanile – di chi la scrive e di chi anagraficamente ci appartiene – invece che la semplice 'manualità' insista sulla rappresentazione dell'evento e non invece sulla sua – e sola – riconoscibilità.
Per questo abbiamo spesso accusato il 'nuovo' di essere già vecchio, perché racconta cose che nella loro apparente marginalità (il rifiuto può essere davvero la carta vincente dell'evento) non hanno più spessore, spessore narrativo ovvio. Non hanno nemmeno un valore sociologico, a quel punto si preferisce 'Ballarò' e Santoro.
Fa meglio chi non crede nei 'riti' e semplicemente li rappresenta senza contornarli con l'aura del mito. Così ha fatto John Harvey. Che guarda caso non viene dal mainstream, ma dal genere (ha pubblicato una novantina di romanzi tra gialli, fantascienza, western, spionaggio e per ragazzi) ed ha saputo cogliere l'essenza degli anni giovanile con la sola arma della memoria senz'altra aggiunta che non fosse quella del sentire, piuttosto che del mitizzare.
La storia di Nick, che nel giorno del suo compleanno riceve dalla madre una scatola in cui sono conservati i pochi oggetti lasciati dal padre che si è suicidato nove anni prima, ha pure il fascino delle indagini di cuore, ma è soprattutto uno spaccato di vita quotidiana che non ha nulla per cui splendere ma, come direbbe Safran Foer, ogni cosa è illuminata.
Illuminata dalla grazia dell'autore che ci racconta altro: il Nick che si confronta coi suoi coetanei più violenti tenendoli a bada con una sorta di equilibrio filosofico, anche se spesso ne paga le conseguenze dal punto di vista strettamente fisico. Ci racconta il mondo del jazz e del blues, delle cantine avvolte nel fumo e magari di qualche cantante, nemmeno tanto improvvisato che è capace di incantare gli uccellini e farli scendere dal loro albero.
Harvey ci racconta di Ellen, la ragazza desiderata da Nick, ma soprattutto di Melanie, la grassona amica di infanzia del protagonista che messa incinta da chi presumibilmente l'ha violentata, accetta la sua condizione e partorisce da sola, come una femmina di cane straziata dalla solitudine.
Insomma, una bella e delicata lettura. Di questi tempi bui, scontati e pieni di pacchina presunzione artistica, un'abluzione nella semplicità più rarefatta e giusta.
di Alfredo Ronci
E non mi chiedete oltre de Il giovane Holden: ho già dato.
Eppure, nonostante le bandelle dei libri 'strillino' in continuazione che il nuovo Salinger sia dietro l'angolo (Costanzo negli anni scorsi aveva l'assillo del cosa ci fosse: questa mi pare una risposta spiritosa, accettabile e gustosamente sopra le righe), alla fine si riesce persino, in questo mondo di letterati 'spinti' (spinti da che ce lo chiediamo in continuazione) a spremere sangue da una rapa.
In realtà Nick's blues è più di un estratto vegetale, seppur di sostanza: è un libro che fa delle leggerezza e dell'amabilità elementi mai disgiunti da un mestiere quasi artigianale.
E qui, se vogliamo, potremmo spingerci oltre: del perché non si comprenda come mai la letteratura giovanile – di chi la scrive e di chi anagraficamente ci appartiene – invece che la semplice 'manualità' insista sulla rappresentazione dell'evento e non invece sulla sua – e sola – riconoscibilità.
Per questo abbiamo spesso accusato il 'nuovo' di essere già vecchio, perché racconta cose che nella loro apparente marginalità (il rifiuto può essere davvero la carta vincente dell'evento) non hanno più spessore, spessore narrativo ovvio. Non hanno nemmeno un valore sociologico, a quel punto si preferisce 'Ballarò' e Santoro.
Fa meglio chi non crede nei 'riti' e semplicemente li rappresenta senza contornarli con l'aura del mito. Così ha fatto John Harvey. Che guarda caso non viene dal mainstream, ma dal genere (ha pubblicato una novantina di romanzi tra gialli, fantascienza, western, spionaggio e per ragazzi) ed ha saputo cogliere l'essenza degli anni giovanile con la sola arma della memoria senz'altra aggiunta che non fosse quella del sentire, piuttosto che del mitizzare.
La storia di Nick, che nel giorno del suo compleanno riceve dalla madre una scatola in cui sono conservati i pochi oggetti lasciati dal padre che si è suicidato nove anni prima, ha pure il fascino delle indagini di cuore, ma è soprattutto uno spaccato di vita quotidiana che non ha nulla per cui splendere ma, come direbbe Safran Foer, ogni cosa è illuminata.
Illuminata dalla grazia dell'autore che ci racconta altro: il Nick che si confronta coi suoi coetanei più violenti tenendoli a bada con una sorta di equilibrio filosofico, anche se spesso ne paga le conseguenze dal punto di vista strettamente fisico. Ci racconta il mondo del jazz e del blues, delle cantine avvolte nel fumo e magari di qualche cantante, nemmeno tanto improvvisato che è capace di incantare gli uccellini e farli scendere dal loro albero.
Harvey ci racconta di Ellen, la ragazza desiderata da Nick, ma soprattutto di Melanie, la grassona amica di infanzia del protagonista che messa incinta da chi presumibilmente l'ha violentata, accetta la sua condizione e partorisce da sola, come una femmina di cane straziata dalla solitudine.
Insomma, una bella e delicata lettura. Di questi tempi bui, scontati e pieni di pacchina presunzione artistica, un'abluzione nella semplicità più rarefatta e giusta.
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