RECENSIONI
Sergio Givone
Non c'è più tempo
Einaudi, Pag. 240 Euro 14,00
Chissà com'è nata l'idea. Se prima è stata la voglia di raccontare il tramonto, anzi l'eclisse di una vita che, arrivata all'apice, deve confrontarsi con la realtà denudata da quelle maschere e quegli inganni che rendono passabile l'orrore esistenziale. O se all'origine vi è una riflessione sulla filosofia della lotta armata, sulla vacuità delle scelte estreme, che alla fine si rivela identica alla vacuità delle scelte banali. Sì, perché al meticoloso scavo psicologico sul personaggio di Venturino Filisdei, Givone si è dilettato di assemblare un sofisticato collage di contributi tratti dagli scritti di personaggi come Antonio Negri e Valerio Morucci, per citarne solo alcuni e per non parlare di Sartre. Tengo a precisare che non amo simili operazioni di commistione fra il narrativo e il filosofico, che a mio gusto trovano perfetta collocazione soltanto in teatro. Non a caso il testo di Givone ha il requisito di un'assoluta teatralità, completa di coreografia, pause, colpi di scena, orchestrazione dei ritmi. Insomma è impossibile non vederselo svolgere in mente come una rappresentazione. Perfino gli effetti di luce, ci sono! Allora perché non farne un testo teatrale? Provo a rispondere: perché in tal caso l'Autore avrebbe tenuto in pugno il testo, ma non la regia, e qui sembra che la regia sia comprimaria ai dialoghi dei personaggi. Sorge ora per l'appunto la questione della funzione dei personaggi. Perché se questo romanzo è pura opera intellettuale (e il professor Givone, filosofo, docente di Estetica all'Università di Firenze, ne avrebbe tutti i titoli), allora i personaggi devono essere lì solo per rappresentare istanze, punti di vista, presenze allegoriche, poli dialettici, dunque idee. In effetti qualcuno di loro sembra messo lì con questa funzione. Primo fra tutti l'istrionico Max Penitenti, che balza in scena come un inquietante e patetico clown proponendo quesiti paradossali.
...il tipo è rotondetto, più flaccido che grasso, basso di statura e di un'età indefinita. Soltanto il volto, più bianco di una maschera di gesso, lascia intravedere occhi pungenti benché indecifrabili e lineamenti piuttosto banali, ma curiosa è la bocca, che si direbbe dipinta (...) Indossa un completo a quadri già improbabile di per sé, ma per giunta la taglia è più piccola di almeno due misure. La camicia fuoriesce dalle maniche della giacca e produce in entrambi i polsini degli sbuffi, più strani che ridicoli. I pantaloni non arrivano alle caviglie... In questa tenuta, e saltellando come un pupazzo a molla, il personaggio disquisisce sull'esistenza dell'inferno.
Non è da meno il lugubre Confiteor, di cui non si capisce se sia uomo o donna, creatura di dolore che suscita riso, tenerezza e orrore nello stesso tempo, ma che di certo ha il potere di emanare una sentenza inappellabile.
Figure dotate di un tragicomico potenziale allegorico, che quindi farebbero pensare ad un puro esercizio della mente. Però è anche vero quanto detto a suo tempo da Marco Lanzòl nel numero 21 del Paradiso degli Orchi cartaceo (beato chi può vantarne il possesso!) recensendo Favola delle cose ultime, dello stesso Autore. Per quanto Givone filosofeggi, la fisicità dei personaggi è fuori discussione, e soprattutto qui è fuori discussione lo spessore psicologico di Filisdei, architetto reso invalido da un incidente e costretto a fare il bilancio della sua vita. Perché quando il futuro cade, la memoria getta luce. E ricompone l'infranto. C'è, fra gli altri discorsi in sospeso, un figlio naturale mai riconosciuto, eppure mai dimenticato. Anche questo nodo deve venire al pettine, in una notte di lucidità allucinata, di incontri improbabili e fatali, di solitudine e di presenze ossessionanti. Prigioniero, o piuttosto volontario ostaggio dentro un rudere che nel bel mezzo di Firenze rappresenta un mondo a parte, sordido e infestato da inspiegabili presenze, Venturino Filisdei consuma la sua tragedia esistenziale nell'arco di una sola nottata: unità di tempo, di luogo e d'azione, come nel teatro antico.
di Giovanna Repetto
...il tipo è rotondetto, più flaccido che grasso, basso di statura e di un'età indefinita. Soltanto il volto, più bianco di una maschera di gesso, lascia intravedere occhi pungenti benché indecifrabili e lineamenti piuttosto banali, ma curiosa è la bocca, che si direbbe dipinta (...) Indossa un completo a quadri già improbabile di per sé, ma per giunta la taglia è più piccola di almeno due misure. La camicia fuoriesce dalle maniche della giacca e produce in entrambi i polsini degli sbuffi, più strani che ridicoli. I pantaloni non arrivano alle caviglie... In questa tenuta, e saltellando come un pupazzo a molla, il personaggio disquisisce sull'esistenza dell'inferno.
Non è da meno il lugubre Confiteor, di cui non si capisce se sia uomo o donna, creatura di dolore che suscita riso, tenerezza e orrore nello stesso tempo, ma che di certo ha il potere di emanare una sentenza inappellabile.
Figure dotate di un tragicomico potenziale allegorico, che quindi farebbero pensare ad un puro esercizio della mente. Però è anche vero quanto detto a suo tempo da Marco Lanzòl nel numero 21 del Paradiso degli Orchi cartaceo (beato chi può vantarne il possesso!) recensendo Favola delle cose ultime, dello stesso Autore. Per quanto Givone filosofeggi, la fisicità dei personaggi è fuori discussione, e soprattutto qui è fuori discussione lo spessore psicologico di Filisdei, architetto reso invalido da un incidente e costretto a fare il bilancio della sua vita. Perché quando il futuro cade, la memoria getta luce. E ricompone l'infranto. C'è, fra gli altri discorsi in sospeso, un figlio naturale mai riconosciuto, eppure mai dimenticato. Anche questo nodo deve venire al pettine, in una notte di lucidità allucinata, di incontri improbabili e fatali, di solitudine e di presenze ossessionanti. Prigioniero, o piuttosto volontario ostaggio dentro un rudere che nel bel mezzo di Firenze rappresenta un mondo a parte, sordido e infestato da inspiegabili presenze, Venturino Filisdei consuma la sua tragedia esistenziale nell'arco di una sola nottata: unità di tempo, di luogo e d'azione, come nel teatro antico.
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