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Il Paradiso degli Orchi
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RECENSIONI

Massimo Rizzante

Non siamo gli ultimi

Effigie, Pag 126 Euro 15,00
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Qualcuno, mi pare Marco Belpoliti, ha detto di Massimo Rizzante che ha qualche tratto del flaneur – tipo verso il quale, ammesso che ve siano ancora in giro, nutrirei una certa simpatia. L'andamento di questo Non siamo gli ultimi in effetti è piuttosto errabondo, la qual cosa a mio avviso non sempre dà la forza necessaria alle proposizioni che contiene, che pure sono spesso interessanti, specie in un'epoca come la presente di critici embedded. Per costoro, bestselleristi thrilleristi ironisti-sinistrati à la Fazio-Dandini rimasticatori tardivi della sputtanatissima e inservibile leggerezza calviniana, alcuni degli assunti contenuti in questo libro potrebbero liquidarsi, secondo un'espressione che molti anni fa ebbe fortuna, apocalittici. La cosiddetta critica oggi si spaventa per poco, soprattutto sta bene attenta a non fare le scarpe agli allievi dei corsi di scrittura creativa che la malaindustria editoriale fa passare per scrittori. L'affidamento a un'idea forte della letteratura, com'è quella di Rizzante, può risultare per loro troppo radicale, magari, chissà, seriosa – figurarsi che qui ancora si parla di Kafka, Danilo Kis, Heidegger addirittura. Immaginatevelo un po' l'estatico Dorry Cojons alle prese con quella roba - come se i suoi compagni di testata in chiave politologica (presenti Ostellino Panebianco Massimo Franco...?) dovessero prendere sul serio la politica, mettiamo Amartya Sen in luogo di D'Alema.

Non siamo gli ultimi raccoglie interventi diversi usciti a suo tempo su "L'Atelier du Roman", rivista trimestrale parigina che da quindici anni lavora intorno a una nozione di letteratura che cerca di sottrarsi al dominio dell'attualità, alla mercificazione del "prodotto", alla schiavitù del brand che rincorre il guadagno come l'ultimo jeans C.K.

Il nemico dichiarato è l'ideologia del presente, quella che schiaccia anche la letteratura (industriale) in una penosa rincorsa all'attualità coi suoi sbrindellati corollari: l'informazione, la velocità, la Giovinezza come mito soffocante che non distingue fra gli infanti e i cinquantenni, e sul versante espressivo la "facilità pop", la rinuncia a uno specifico letterario e la rincorsa all'audiovisivo, il postmodern che assomiglia a un postmortem – e ancora, il bambinismo del politicamente corretto, la spettacolarizzazione senza conoscenza di un Ammaniti, la mitologia del plot, il dolorismo furbo di una Mazzantini.

Il romanzo nella concezione di Rizzante costruisce una lingua, una modalità del sapere che della memoria è fondazione perché non è niente di meno che il mondo così come ci è stato consegnato – e sollecitazione del futuro possibile, segnatamente nella forma dell'ascolto. Epperò questa è l'epoca del romanzo-puttana: il romanzo in sé, a prescindere da quello che (e da come lo) dice si qualifica come un certo genere di prodotto in sé, una merce seduttiva che non si nega a nessuno perché depotenziata del suo specifico: l'estetico "democraticamente" ridotto a cosmesi. Dal paradigma arte-conoscenza-memoria a quello più comodo spettacolo-informazione–consumo. Così la letteratura odierna, mentre si recitano insinceri riti come quello del giorno della memoria, contribuisce a celebrarne il suo dissolvimento. Al posto della lettura, l'incontro con l'autore – possibilmente al festival, l'evento mondano da collezionare come l'elenco dei viaggi. Un romanzo insomma non si nega più a nessuno. Lo storico Giovanni De Luna vede una spia dell'incapacità degli ex comunisti di fare storia, di serbare memoria di qualcuna almeno delle loro ragioni, nel fatto che i primi due segretari del Pd ne abbiano scritto uno anche loro. Non aggiunge considerazioni sul loro valore, e nemmeno io, per un cristiano soprassalto di pietà, ma invito i lettori a gustarsi il décor che incastona il sonnolento Veltroni quando lo intervistano a casa sua: dietro al divano, una funerea, levigata sfilza di Meridiani che s'indovinano ancora nuovi, forse intonsi e incellophanati: chic ma non troppo (sono finiti in edicola, al prezzo di un tascabile); abbastanza comme il faut e molto pd.

Nell'epoca di Baricco e Ligabue, Rizzante ha il coraggio di riparlare di gerarchia. Richiama Jean Clair e il "coefficiente d'attrito" dell'arte. Spostato il principio dalla materia al tempo storico ne viene che più un'opera appartiene al suo tempo, ovvero non è in grado di superare le resistenze del momento in cui è prodotta, più il suo valore è infimo. La proposizione, ridotta a slogan, può sembrare eccessiva ed è vero che non sempre lo sforzo teorico-analitico di Rizzante è adeguato alle tesi che avanza, ma è il male minore, non è la teoria ciò che lo interessa maggiormente. Preferisce dialogare con i libri, e non è poco, in un momento in cui da più parti si parla esplicitamente di fine della critica.

Com'è della vocazione originaria dell'editore Effigie, il libro è ricco di fotografie, che ai margini della pagina costituiscono una rubricazione visiva inconsueta - un omaggio agli scrittori di cui si parla.





di Michele Lupo


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