RECENSIONI
Fabrizio Patriarca
Qualcosa abbiamo fatto
Gaffi, Pag. 438 Euro 16,00
Mi sovviene un ricordo, chissà se per nostalgia o per assonanza, di quando Callisto Cosulich, critico cinematografico di 'Paese Sera', di fronte alla visione di Superman, il primo, quello con lo scomparso Christopher Reeves, pronunciò tale sentenza: non è roba per il cinema, ma per la psicanalisi. A dir la verità non l'ho mai capita, ma ora me ne approprio.
Qualcosa abbiamo fatto non è roba per la letteratura, ma per la psicanalisi: un irrefrenabile narcisismo 'permea' il personaggio che, irrealizzato nella sua dimensione post-adolescenziale, ci ritorna su costruendo la sua opera prima narrativa (e si sente!) su ricordi liceali e scolastici.
Romanzo esagerato, pletorico, ripetitivo, citazionista, ossessivo, prolisso, ridondante (fermate il mondo voglio scendere!) dove a voler far del bene, ma molto del bene, dovrebbe essere 'tagliato' di duecento pagine e di un migliaio di aggettivi.
Con onestà: avrei voluto massacrarlo e dire all'autore di cambiar mestiere, perché il saper scrivere non significa saper 'fare' un romanzo.
E invece l'assunto iniziale (indubbiamente negativo) frana di fronte ad un'analisi più approfondita ed onesta; l'editing andava comunque fatto, per ridurre i lati oscuri e falsamente declamatorii (tipo: il culo è l'Esserci, daseineggia mollidulo per gli Holzwege dell'Essere, dove abbondano alberi secolari dalle cortecce rugose che già lo minacciano, malui – la cosaculo – trae beneficio angolare da questa intimidazione: protetto da screpolature e rughelle che sono il segno dell'Erlebnis, l'intimo della cosaculo traversa la storia come un ente/custodia, e appena il suo destino lo prende a calci finisce in defettibilmente per rotolare nel confortante aperto del puro Bezug... qualcuno sa cosa cazzo voleva dire?), per limitare la pomposità della scrittura, per riconfrontarsi con un'arte che spesso e volentieri non necessita dell'esplosione, dell'artificio. ma dell'implosione: e fanculo quello scrittore di noir che suggerisce ai suoi allievi di non scrivere mai in prima persona!
Patriarca per fortuna lo fa (non avrebbe senso la terza) sì con l'esagerazione del neofita, ma anche con la passione e la necessità del 'dover dire' e dove il lettore, proprio perché 'chiamato' psicanaliticamente', nel conflitto dell'autore assume il ruolo di transfert. Il romanzo è dunque limitato (limitante?) nella sua dimensione monstre, ma bello e suggestivo nella sua dinamica recitativa, nel suo ruolo di diario onesto e commovente, pur nella strategia suicida di un corpo 'addizionato' fino alla sfinimento.
In un scambio tra il protagonista ed un amico, sulla possibilità di scrivere un libro e mai finirlo esce 'sto dialogo: "Ma mettiamo per assurdo che lo finisca: cosa diventa?" "Quando lo finisce? Mh. SE il romanzo non vale un cazzo, lui non diventa un cazzo". "Come il suo romanzo". "Appunto. SE invece il romanzo vale qualcosa, lui diventa quello che chaimo un uomo pieno di parole".
Già, un uomo pieno di parole, questo è Patriarca nel suo primo romanzo. Quasi vertiginoso nella sua affabulatoria smania di raccontare.
Questa ormai è andata: ma se lo scrittore romano decidesse di continuare, con un pizzico di controllo in più ed una chilata di narcisismo in meno, riuscirebbe a fare quello che pochi, di questi tristi tempi, sarebbero in grado di realizzare: un capolavoro.
Per ora un voto medio.
di Alfredo Ronci
Qualcosa abbiamo fatto non è roba per la letteratura, ma per la psicanalisi: un irrefrenabile narcisismo 'permea' il personaggio che, irrealizzato nella sua dimensione post-adolescenziale, ci ritorna su costruendo la sua opera prima narrativa (e si sente!) su ricordi liceali e scolastici.
Romanzo esagerato, pletorico, ripetitivo, citazionista, ossessivo, prolisso, ridondante (fermate il mondo voglio scendere!) dove a voler far del bene, ma molto del bene, dovrebbe essere 'tagliato' di duecento pagine e di un migliaio di aggettivi.
Con onestà: avrei voluto massacrarlo e dire all'autore di cambiar mestiere, perché il saper scrivere non significa saper 'fare' un romanzo.
E invece l'assunto iniziale (indubbiamente negativo) frana di fronte ad un'analisi più approfondita ed onesta; l'editing andava comunque fatto, per ridurre i lati oscuri e falsamente declamatorii (tipo: il culo è l'Esserci, daseineggia mollidulo per gli Holzwege dell'Essere, dove abbondano alberi secolari dalle cortecce rugose che già lo minacciano, malui – la cosaculo – trae beneficio angolare da questa intimidazione: protetto da screpolature e rughelle che sono il segno dell'Erlebnis, l'intimo della cosaculo traversa la storia come un ente/custodia, e appena il suo destino lo prende a calci finisce in defettibilmente per rotolare nel confortante aperto del puro Bezug... qualcuno sa cosa cazzo voleva dire?), per limitare la pomposità della scrittura, per riconfrontarsi con un'arte che spesso e volentieri non necessita dell'esplosione, dell'artificio. ma dell'implosione: e fanculo quello scrittore di noir che suggerisce ai suoi allievi di non scrivere mai in prima persona!
Patriarca per fortuna lo fa (non avrebbe senso la terza) sì con l'esagerazione del neofita, ma anche con la passione e la necessità del 'dover dire' e dove il lettore, proprio perché 'chiamato' psicanaliticamente', nel conflitto dell'autore assume il ruolo di transfert. Il romanzo è dunque limitato (limitante?) nella sua dimensione monstre, ma bello e suggestivo nella sua dinamica recitativa, nel suo ruolo di diario onesto e commovente, pur nella strategia suicida di un corpo 'addizionato' fino alla sfinimento.
In un scambio tra il protagonista ed un amico, sulla possibilità di scrivere un libro e mai finirlo esce 'sto dialogo: "Ma mettiamo per assurdo che lo finisca: cosa diventa?" "Quando lo finisce? Mh. SE il romanzo non vale un cazzo, lui non diventa un cazzo". "Come il suo romanzo". "Appunto. SE invece il romanzo vale qualcosa, lui diventa quello che chaimo un uomo pieno di parole".
Già, un uomo pieno di parole, questo è Patriarca nel suo primo romanzo. Quasi vertiginoso nella sua affabulatoria smania di raccontare.
Questa ormai è andata: ma se lo scrittore romano decidesse di continuare, con un pizzico di controllo in più ed una chilata di narcisismo in meno, riuscirebbe a fare quello che pochi, di questi tristi tempi, sarebbero in grado di realizzare: un capolavoro.
Per ora un voto medio.
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Leopardi e l'invenzione della moda
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Partendo dal mai troppo citato Dialogo della Moda e della Morte del poeta di Recanati, ci accompagna in un viaggio profetico che, proprio tramite le intuizioni leopardiane, arriva ad annunciarci che il post-moderno era stato anticipato almeno un paio di secoli fa.
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