RECENSIONI
Fernando Coratelli
Quando il comunismo finì a tavola (Trentatré anni per smettere di mangiare bambini)
Editore Caratterimobili, Pag. 128 Euro 13,00
Fernando Coratelli è al suo secondo libro, dopo un romanzo pubblicato da Cadmo alcuni anni fa. Fra le altre cose è anche co-ideatore di tornogiovedi.it, bellissima rivista on line di storie, fotografie, rubriche varie.
Il breve romanzo Quando il comunismo finì a tavola. Trentatré anni per smettere di mangiare bambini (l'editore è Caratterimobili di Bari – città natale di Coratelli, ora di stanza a Milano), attraverso l'espediente narrativo di un'intervista che l'io-narrante (uno scrittore) concede a una giornalista per un webmagazine, rivede la storia italiana degli ultimi trent'anni, soffermandosi su quattro momenti topici, il 1978, il 1989, il 2001 e il 2011.
In questi snodi fondamentali della Storia, segnatamente quella di sinistra, il narratore fa coincidere passaggi cruciali della propria vita, che verso quella parte politica ha guardato come al proprio orizzonte di riferimento. La piega che prende il racconto non potrà perciò non definire le tappe di un tracollo, di una sconfitta, di un disorientamento esistenziale oltre che politico. Il trauma – si capisce – di passare da Berlinguer, con tutti i suoi limiti o errori alla nullità di Veltroni.
Il nostro nel '78 è un bambino, deve preoccuparsi soprattutto che il maestro delle elementari non faccia cadere la bacchetta di legno sulle sue manine delicate. Non sa che una punizione più drammatica sta uccidendo i suoi sogni futuri nella culla. Che dalla morte di Aldo Moro (ma è anche l'anno tragico di Peppino Impastato, del trionfo argentino ai mondiali di calcio mentre i militari scrivono la loro pagina nera, del preavviso di sfratto a un secolo di diritti sociali della signora Thatcher...) la nostra storia sta correndo dritta verso lo strapiombo – si dirà: il piombo in quegli anni era merce diffusa. Vero. Ma di lì a poco, quando tutti si metteranno a cantare Vamos a la Playa, morirà – allegro, cieco, stupidissimo - l'intero paese. Lobotomizzato dal Craxi che il Partito Deprimente negli ultimi anni non ha smesso di "rivalutare"... Anche se per il narratore "l'anno di torsione" è l'Ottantanove – inutile spiegare perché. L'Italia, nonostante tutte le sue incredibili peculiarità, non è estranea a processi di portata internazionale: non è che la sinistra sia morta solo da noi.
Ma aggiustiamo il tiro: il narratore non è un piagnone, uno di quei militanti duri e puri de 'na vorta che fuori della politica, zero (dopo, cioè oggi, tutto fuorché politica). Ha sempre avuto le sue personali passioni, musicali per esempio (i Cure), il Bari inteso come squadra di calcio, le storie sentimentali – alla giornalista premerebbe saperne un po' di più, in effetti. L'intervista peraltro si svolge in un'enoteca, e gli si dà dentro con formaggi e salumi. Il vino fa la sua parte: c'è un aspetto ludico cifrato in una specie di balletto - da seduti. La chiacchierata, per quanto tutto si svolga entro i confini di un incontro di lavoro, non esclude l'ammiccamento soft – in scena son due giovanotti in fondo. Il nostro non manca di gigioneggiare, senza scoprirsi troppo, aspettando le mosse della ragazza, evidentemente curiosa al di là dell'aspetto professionale. Del resto, lui - non è difficile immaginare una certa convergenza con l'autore empirico – non fa che alludere a quello, al fatto che a cambiare sono stati anche i modi di vivere. Non ci sono più bambini da mangiare, si va matti per le tartine al caviale e le penne alla vodka (e la panna è ovunque)...
Ha creduto all'utopia (e comunista), poi è stato costretto a rassegnarsi all'evidenza di una sconfitta, senza con questo accreditare "la verità" dei vincitori; ma i segni che individua nel cammino verso la disfatta oscillano dalla perentorietà dell'evidenza alla precarietà dell'aporia, dello scetticismo, del disorientamento. Si tratti di cheesburger o slow food, non è persuaso della bontà di ciò che vede. Fino alle mazzate di Genova 2001: lì non c'è più appello. La ragazza ascolta, e impara cose che non conosceva. E si fa venire dei pensieri. Ma non è l'unica delle possibili sorprese. Ché intorno a questa fragile cornice aleggia un'ombra: la lasciamo alla curiosità del lettore.
di Michele Lupo
Il breve romanzo Quando il comunismo finì a tavola. Trentatré anni per smettere di mangiare bambini (l'editore è Caratterimobili di Bari – città natale di Coratelli, ora di stanza a Milano), attraverso l'espediente narrativo di un'intervista che l'io-narrante (uno scrittore) concede a una giornalista per un webmagazine, rivede la storia italiana degli ultimi trent'anni, soffermandosi su quattro momenti topici, il 1978, il 1989, il 2001 e il 2011.
In questi snodi fondamentali della Storia, segnatamente quella di sinistra, il narratore fa coincidere passaggi cruciali della propria vita, che verso quella parte politica ha guardato come al proprio orizzonte di riferimento. La piega che prende il racconto non potrà perciò non definire le tappe di un tracollo, di una sconfitta, di un disorientamento esistenziale oltre che politico. Il trauma – si capisce – di passare da Berlinguer, con tutti i suoi limiti o errori alla nullità di Veltroni.
Il nostro nel '78 è un bambino, deve preoccuparsi soprattutto che il maestro delle elementari non faccia cadere la bacchetta di legno sulle sue manine delicate. Non sa che una punizione più drammatica sta uccidendo i suoi sogni futuri nella culla. Che dalla morte di Aldo Moro (ma è anche l'anno tragico di Peppino Impastato, del trionfo argentino ai mondiali di calcio mentre i militari scrivono la loro pagina nera, del preavviso di sfratto a un secolo di diritti sociali della signora Thatcher...) la nostra storia sta correndo dritta verso lo strapiombo – si dirà: il piombo in quegli anni era merce diffusa. Vero. Ma di lì a poco, quando tutti si metteranno a cantare Vamos a la Playa, morirà – allegro, cieco, stupidissimo - l'intero paese. Lobotomizzato dal Craxi che il Partito Deprimente negli ultimi anni non ha smesso di "rivalutare"... Anche se per il narratore "l'anno di torsione" è l'Ottantanove – inutile spiegare perché. L'Italia, nonostante tutte le sue incredibili peculiarità, non è estranea a processi di portata internazionale: non è che la sinistra sia morta solo da noi.
Ma aggiustiamo il tiro: il narratore non è un piagnone, uno di quei militanti duri e puri de 'na vorta che fuori della politica, zero (dopo, cioè oggi, tutto fuorché politica). Ha sempre avuto le sue personali passioni, musicali per esempio (i Cure), il Bari inteso come squadra di calcio, le storie sentimentali – alla giornalista premerebbe saperne un po' di più, in effetti. L'intervista peraltro si svolge in un'enoteca, e gli si dà dentro con formaggi e salumi. Il vino fa la sua parte: c'è un aspetto ludico cifrato in una specie di balletto - da seduti. La chiacchierata, per quanto tutto si svolga entro i confini di un incontro di lavoro, non esclude l'ammiccamento soft – in scena son due giovanotti in fondo. Il nostro non manca di gigioneggiare, senza scoprirsi troppo, aspettando le mosse della ragazza, evidentemente curiosa al di là dell'aspetto professionale. Del resto, lui - non è difficile immaginare una certa convergenza con l'autore empirico – non fa che alludere a quello, al fatto che a cambiare sono stati anche i modi di vivere. Non ci sono più bambini da mangiare, si va matti per le tartine al caviale e le penne alla vodka (e la panna è ovunque)...
Ha creduto all'utopia (e comunista), poi è stato costretto a rassegnarsi all'evidenza di una sconfitta, senza con questo accreditare "la verità" dei vincitori; ma i segni che individua nel cammino verso la disfatta oscillano dalla perentorietà dell'evidenza alla precarietà dell'aporia, dello scetticismo, del disorientamento. Si tratti di cheesburger o slow food, non è persuaso della bontà di ciò che vede. Fino alle mazzate di Genova 2001: lì non c'è più appello. La ragazza ascolta, e impara cose che non conosceva. E si fa venire dei pensieri. Ma non è l'unica delle possibili sorprese. Ché intorno a questa fragile cornice aleggia un'ombra: la lasciamo alla curiosità del lettore.
di Michele Lupo
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