RECENSIONI
Bernard Malamud
Racconti
Einaudi, Pag. 365 Euro 20,00
Storie, storie, storie: per me non esiste altro. Spesso gli scrittori che non riescono a inventare una storia seguono altre strategie, perfino sostituendo lo stile alla narrazione. Invece io sono convinto che la storia sia l'elemento di base della narrativa.
Se poi lo leggi, Malamud, gli dai ragione. Perché seguendo le sue storie sconfini in una zona dell'esistenza dall'apparenza così ultimativa che non puoi sfuggire alla sensazione di un pericolo che ti riguarda in prima persona. Nelle sue storie ci sono personaggi con i quali il destino sembra voler regolare i conti una volta per tutte. E' qualcosa che accade ed essi non possono farci niente. Spesso sono disgraziati all'ultimo stadio ai quali la vita annuncia che lo spettacolo è finito. Li colma del male del mondo, che a loro piaccia o no, e l'inquietudine con cui vi fanno fronte assomiglia a quella ansiosa del lettore.
Insomma, le storie – questo feticcio smorfioso e paraculo che oggi in letteratura tutti adorano senza discussioni – in Malamud acquistano peso grazie alla consistenza dei personaggi. La loro fragilità è ansiogena, perciò tanto più vera – vale a dire, letterariamente efficace. Sembrano non solo incapaci di arginare le loro crisi ma come sospesi in un'attesa non sai se di una palingenesi o dell'attacco definitivo di un dio indecifrabile, come lo definisce Eraldo Affinati nell'introduzione. Ciò che li tiene in stallo, malinconici, mai elusivi, spesso cocciuti e malarmati, in queste vite sempre decisive, proprie a ognuno di loro come dovrebbe essere a qualsiasi individuale destino, è anche ciò che ne dà ragione. L'esistenza li chiama a regolare i conti con ciò che sono e tutto questo assume l'aspetto di una necessità incontrastabile, di una via senza ritorno. Altro che reversibilità dell'esperienza. Ogni singola vita nell'arte scabra di Malamud ha da fare con una linea del tempo inconvertibile, esame non sempre comprensibile ma incondizionato, assoluto. In questa radicalità sta la distanza dal nostro mondo di messe in scena ritualizzate intorno alla programmatica spoliazione del sé, piallate sull'immagine transitoria, menzognera, fabbricata per stare sullo schermo il tempo necessario a perpetuare il gioco al massacro del "tutti" che non è più nessuno perché di individuale c'è solo l'illusione. Forse è questo che ci separa da Malumud, la goffaggine con cui ci portiamo addosso il verbo "essere".
Mi preoccupo inutilmente del futuro – dice la voce narrante dell' 'Uomo nel cassetto' -, e porto il peso di una coscienza eccessiva. Per questo forse è difficile capire oggi questi racconti; difficile assumere il motivo della colpa come paradigma narrativo, decifrare seriamente una certa posa della vittima. Difficile caricarsi del gravame del passato come fa con fin troppa acribia l'insegnante de 'La scelta di una professione' davanti all'allieva che gli confessa i suoi trascorsi di puttana e ne inibisce l'intraprendenza, più paura che per moralismo. Difficile seguire la parabola di Angelo Levine, "l'uomo che non cessava mai di soffrire": una vita tradotta in una serie di disastri che il lettore di oggi potrebbe sopportare solo in una versione parodistica, tale da disinnescare la bomba del dolore che qui è talmente connaturato alla vita, così necessario da potersi dire senza schermi, senza metafore quasi, nudo, adulto e perciò lontanissimo dall'orpello di similitudini improbabili perché i numeri, trattandosi di umani, sono tutti primi; un dolore adulto perché rugoso e pieno di vergogna anche quando si tratta di adolescenti, come in Un'estate di letture, in cui un ragazzo chiuso in un'indolente incapacità di pensare al suo futuro, fa credere di passare le giornate a leggere (nell'ambiente di provenienza, era ancora un titolo di merito).
Considerato da molti uno dei migliori narratori di storie brevi del Novecento (uno che una grande come Flannery O'Connor considerava più bravo di lei), Bernard Malamud è uno scrittore dalla prosa piana ma implacabile, così antispettacolare che oggi avrebbe le sue difficoltà a essere amato da un pubblico la cui sete di dolore si placa col vinello per adolescenti di Paolo Giordano confezionato nelle cantine di Segrate, le stesse del piagnisteo colato con un occhio ai cuoricini corrivi delle signore Mazzantini e un altro al conto in banca.
di Michele Lupo
Se poi lo leggi, Malamud, gli dai ragione. Perché seguendo le sue storie sconfini in una zona dell'esistenza dall'apparenza così ultimativa che non puoi sfuggire alla sensazione di un pericolo che ti riguarda in prima persona. Nelle sue storie ci sono personaggi con i quali il destino sembra voler regolare i conti una volta per tutte. E' qualcosa che accade ed essi non possono farci niente. Spesso sono disgraziati all'ultimo stadio ai quali la vita annuncia che lo spettacolo è finito. Li colma del male del mondo, che a loro piaccia o no, e l'inquietudine con cui vi fanno fronte assomiglia a quella ansiosa del lettore.
Insomma, le storie – questo feticcio smorfioso e paraculo che oggi in letteratura tutti adorano senza discussioni – in Malamud acquistano peso grazie alla consistenza dei personaggi. La loro fragilità è ansiogena, perciò tanto più vera – vale a dire, letterariamente efficace. Sembrano non solo incapaci di arginare le loro crisi ma come sospesi in un'attesa non sai se di una palingenesi o dell'attacco definitivo di un dio indecifrabile, come lo definisce Eraldo Affinati nell'introduzione. Ciò che li tiene in stallo, malinconici, mai elusivi, spesso cocciuti e malarmati, in queste vite sempre decisive, proprie a ognuno di loro come dovrebbe essere a qualsiasi individuale destino, è anche ciò che ne dà ragione. L'esistenza li chiama a regolare i conti con ciò che sono e tutto questo assume l'aspetto di una necessità incontrastabile, di una via senza ritorno. Altro che reversibilità dell'esperienza. Ogni singola vita nell'arte scabra di Malamud ha da fare con una linea del tempo inconvertibile, esame non sempre comprensibile ma incondizionato, assoluto. In questa radicalità sta la distanza dal nostro mondo di messe in scena ritualizzate intorno alla programmatica spoliazione del sé, piallate sull'immagine transitoria, menzognera, fabbricata per stare sullo schermo il tempo necessario a perpetuare il gioco al massacro del "tutti" che non è più nessuno perché di individuale c'è solo l'illusione. Forse è questo che ci separa da Malumud, la goffaggine con cui ci portiamo addosso il verbo "essere".
Mi preoccupo inutilmente del futuro – dice la voce narrante dell' 'Uomo nel cassetto' -, e porto il peso di una coscienza eccessiva. Per questo forse è difficile capire oggi questi racconti; difficile assumere il motivo della colpa come paradigma narrativo, decifrare seriamente una certa posa della vittima. Difficile caricarsi del gravame del passato come fa con fin troppa acribia l'insegnante de 'La scelta di una professione' davanti all'allieva che gli confessa i suoi trascorsi di puttana e ne inibisce l'intraprendenza, più paura che per moralismo. Difficile seguire la parabola di Angelo Levine, "l'uomo che non cessava mai di soffrire": una vita tradotta in una serie di disastri che il lettore di oggi potrebbe sopportare solo in una versione parodistica, tale da disinnescare la bomba del dolore che qui è talmente connaturato alla vita, così necessario da potersi dire senza schermi, senza metafore quasi, nudo, adulto e perciò lontanissimo dall'orpello di similitudini improbabili perché i numeri, trattandosi di umani, sono tutti primi; un dolore adulto perché rugoso e pieno di vergogna anche quando si tratta di adolescenti, come in Un'estate di letture, in cui un ragazzo chiuso in un'indolente incapacità di pensare al suo futuro, fa credere di passare le giornate a leggere (nell'ambiente di provenienza, era ancora un titolo di merito).
Considerato da molti uno dei migliori narratori di storie brevi del Novecento (uno che una grande come Flannery O'Connor considerava più bravo di lei), Bernard Malamud è uno scrittore dalla prosa piana ma implacabile, così antispettacolare che oggi avrebbe le sue difficoltà a essere amato da un pubblico la cui sete di dolore si placa col vinello per adolescenti di Paolo Giordano confezionato nelle cantine di Segrate, le stesse del piagnisteo colato con un occhio ai cuoricini corrivi delle signore Mazzantini e un altro al conto in banca.
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