RECENSIONI
Stéphanie Hochet
Sangue nero
Voland, Traduzione di Monica Capuani, Pag. 112 Euro 13,00
Interrogarsi sul senso e le implicazioni del tatuaggio, nel momento in cui questa moda ha raggiunto il culmine, è quasi irresistibile, e non poteva non stuzzicare la Hochet.
Psicologi e antropologi concentrerebbero l’analisi sulle cause più che sugli effetti, ma uno scrittore è portato ad andare oltre, sviluppando le conseguenze fino al limite concesso dalla fantasia. E’ in questa sottile linea d’ombra fra realismo e surreale che la Hochet pone la sua originale scrittura senza definirsi in alcun genere, ma esprimendosi in totale libertà. Libertà, non anarchia, perché non c’è nulla di inutile o gratuito, anzi la narrazione è vincolata alla dura legge della necessità: poste le premesse di un certo punto di vista, tutto ciò che accade è necessario.
Torniamo alla pelle. La pelle ha un rapporto privilegiato con il sistema nervoso, tanto da condividerne l’origine embrionale a partire da un unico tessuto. E dunque offrire il corpo, e in particolare la pelle, a supporto di un messaggio (disegno o parola che sia) significa mettere in gioco una sfera così personale e profonda da scatenare conseguenze imprevedibili.
La pelle: quasi una porta che dà accesso alla mente in tutt’e due i sensi. Dentro e fuori, fuori e dentro. E’ un moto circolare, come il percorso del tempo sulla meridiana che dà origine all’avventura del protagonista. Nulla è casuale nel rimando di segni e simboli in cui si trova ingabbiato. E’ un uomo di quarantacinque anni, scapolo, dunque in una fase di bilanci e crocevia fra le occasioni perse e quelle da recuperare. Prima di tutto un vecchio capriccio di cui l’ha privato il divieto familiare: il tatuaggio. Una trasgressione adolescenziale che arriva fuori tempo.
La prende alla lontana, da disegnatore, fornendo soggetti e immagini a un tatuatore di professione che gradualmente occuperà un posto sempre più grande nella sua vita. Dimitri.
Alto e grosso, il cranio perfettamente liscio, con protuberanze di carne sulla nuca, sarebbe inutile (folle) attaccare briga con lui. In un’epoca più sanguinaria, avrebbe svolto la funzione del boia (…) Lo sguardo senza ombra di follia o di emozioni, e senza neanche malizia. L’uomo intimidisce e allo stesso tempo rassicura (…) Ispira una fiducia che rasenta la pura e semplice sottomissione.
Una splendida descrizione in cui aspetto e relazione si fondono in un tutt’uno. Si capisce dunque che il protagonista va incontro ineluttabilmente a un rito di iniziazione. Ma con quali conseguenze?
Il personaggio di Dimitri rimane centrale. Presente, poi necessario, infine ingombrante. Rassicurante all’inizio, inquietante nel proseguimento della storia.
Terzo protagonista è il tatuaggio stesso. Una frase latina letta su un’antica meridiana: VULNERANT OMNES, ULTIMA NECAT.
Scritta sulla meridiana la frase ha un significato evidente: sono le ore che feriscono, e l’ultima di esse quella che uccide. Ma una volta che è stata incisa sul corpo, e volutamente in quella parte critica che è il plesso solare, dove psiche e soma s’incontrano, comincia a mutare aspetto, a rivelare implicazioni impensate, a suonare enigmatica e minacciosa.
Si riferisce alle ore, alle donne che popolano la sua vita come fantasmi, o a una rara malattia che gli è stata diagnosticata?
L’ossessione del protagonista, avviluppato in una rete sempre più indistricabile, mi ha ricordato Le Horla di Maupassant. Minaccia insieme esterna e interna, che progressivamente rende indistinguibile la folle realtà dalla personale follia.
Ho assistito alla presentazione del libro e ho conosciuto l’Autrice. Da lei promana una quieta ostinazione. Come se sapesse, della realtà, qualcosa più di noi. Come se sapesse esattamente che cosa sia giusto comunicarci, che ci piaccia o no, a scapito delle nostre belle certezze. E dove, necessariamente, debba essere incisa la nostra pelle, senza crudeltà né misericordia. Così ho capito e ne sono convinta: il tatuatore è lei.
di Giovanna Repetto
Psicologi e antropologi concentrerebbero l’analisi sulle cause più che sugli effetti, ma uno scrittore è portato ad andare oltre, sviluppando le conseguenze fino al limite concesso dalla fantasia. E’ in questa sottile linea d’ombra fra realismo e surreale che la Hochet pone la sua originale scrittura senza definirsi in alcun genere, ma esprimendosi in totale libertà. Libertà, non anarchia, perché non c’è nulla di inutile o gratuito, anzi la narrazione è vincolata alla dura legge della necessità: poste le premesse di un certo punto di vista, tutto ciò che accade è necessario.
Torniamo alla pelle. La pelle ha un rapporto privilegiato con il sistema nervoso, tanto da condividerne l’origine embrionale a partire da un unico tessuto. E dunque offrire il corpo, e in particolare la pelle, a supporto di un messaggio (disegno o parola che sia) significa mettere in gioco una sfera così personale e profonda da scatenare conseguenze imprevedibili.
La pelle: quasi una porta che dà accesso alla mente in tutt’e due i sensi. Dentro e fuori, fuori e dentro. E’ un moto circolare, come il percorso del tempo sulla meridiana che dà origine all’avventura del protagonista. Nulla è casuale nel rimando di segni e simboli in cui si trova ingabbiato. E’ un uomo di quarantacinque anni, scapolo, dunque in una fase di bilanci e crocevia fra le occasioni perse e quelle da recuperare. Prima di tutto un vecchio capriccio di cui l’ha privato il divieto familiare: il tatuaggio. Una trasgressione adolescenziale che arriva fuori tempo.
La prende alla lontana, da disegnatore, fornendo soggetti e immagini a un tatuatore di professione che gradualmente occuperà un posto sempre più grande nella sua vita. Dimitri.
Alto e grosso, il cranio perfettamente liscio, con protuberanze di carne sulla nuca, sarebbe inutile (folle) attaccare briga con lui. In un’epoca più sanguinaria, avrebbe svolto la funzione del boia (…) Lo sguardo senza ombra di follia o di emozioni, e senza neanche malizia. L’uomo intimidisce e allo stesso tempo rassicura (…) Ispira una fiducia che rasenta la pura e semplice sottomissione.
Una splendida descrizione in cui aspetto e relazione si fondono in un tutt’uno. Si capisce dunque che il protagonista va incontro ineluttabilmente a un rito di iniziazione. Ma con quali conseguenze?
Il personaggio di Dimitri rimane centrale. Presente, poi necessario, infine ingombrante. Rassicurante all’inizio, inquietante nel proseguimento della storia.
Terzo protagonista è il tatuaggio stesso. Una frase latina letta su un’antica meridiana: VULNERANT OMNES, ULTIMA NECAT.
Scritta sulla meridiana la frase ha un significato evidente: sono le ore che feriscono, e l’ultima di esse quella che uccide. Ma una volta che è stata incisa sul corpo, e volutamente in quella parte critica che è il plesso solare, dove psiche e soma s’incontrano, comincia a mutare aspetto, a rivelare implicazioni impensate, a suonare enigmatica e minacciosa.
Si riferisce alle ore, alle donne che popolano la sua vita come fantasmi, o a una rara malattia che gli è stata diagnosticata?
L’ossessione del protagonista, avviluppato in una rete sempre più indistricabile, mi ha ricordato Le Horla di Maupassant. Minaccia insieme esterna e interna, che progressivamente rende indistinguibile la folle realtà dalla personale follia.
Ho assistito alla presentazione del libro e ho conosciuto l’Autrice. Da lei promana una quieta ostinazione. Come se sapesse, della realtà, qualcosa più di noi. Come se sapesse esattamente che cosa sia giusto comunicarci, che ci piaccia o no, a scapito delle nostre belle certezze. E dove, necessariamente, debba essere incisa la nostra pelle, senza crudeltà né misericordia. Così ho capito e ne sono convinta: il tatuatore è lei.
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