CLASSICI
Alfredo Ronci
Sembra sempre la stessa attesa: “Barnabo delle montagne” di Dino Buzzati.
Buzzati non è mai stato un nome che si definisse correttamente. Voglio dire: un Leopardi sì, un Manzoni sì, un Moravia ancora meglio, per non parlare di Pavese o di Fenoglio. Ma Buzzati no. Ma soprattutto perché?
Il perché è molto semplice: pur non essendo un emarginato o un solitario (per quanto, stando a quanto si racconta, non preferisse andare per i premi letterari o per gli incontri intellettuali), le sue storie raccontano di situazioni e di avvenimenti che mal si adattavano ai tempi che si viveva o alle tematiche narrative che si prediligevano. Può essere considerato un banco di prova dell’atteggiamento cauto tenuto dalla critica italiana riguardo al genere fantastico (ma diciamo che, nonostante questa avversione, il genere fantastico nella letteratura italiana è sempre stato ben presente, anche con autori fidati e rispettati).
Personalmente ho un ricordo ben preciso di Buzzati durante gli anni di scuola, precisamente quelli liceali. Si sa, il novecento sia storico che soprattutto letterario ha sempre avuto poca fortuna negli anni di studio (ma anche ora è così), ma al liceo avevo una professoressa d’italiano che ogni tanto sviava dal percorso imposto dai superiori e con una attenzione e oserei dire un sentimento ben determinato ci parlava di momenti ed esperienze che, credo, volesse in qualche modo dividerle coi suoi alunni.
Bene. Un giorno si presentò con un Oscar Mondadori e con un autore che, anche qui credo, pochi di noi, se non tutti, poco si conosceva (o affatto): Dino Buzzati e il suo Il deserto dei Tartari. Ci parlò molto convintamente della trama, dei suoi personaggi e per farci capire l’essenza stessa della storia, ripeté costantemente una parola che nel corso degli anni mi accompagnò nella riflessione e nella conoscenza di Buzzati: l’attesa.
L’attesa di un avvenimento che si credeva vicino ma che mai, e poi mai, si sarebbe rivelato, aspettando invece la morte. Ecco, per me Buzzati è, ed è sempre stato, lo scrittore che più di ogni altro mi ha aiutato a comprendere cos’è l’attesa e soprattutto cos’è il significato della morte.
Barnabo delle montagne, il primo romanzo dello scrittore di Belluno (ma la sua attività si svolse quasi unicamente a Milano dove, nel 1928, fu assunto come cronista ne Il Corriere della Sera), pubblicato nel 1933 è la storia assai simile a quella de Il deserto dei tartari, ma anche con qualche differenza non di poco conto.
Il montanaro Barnabo, a guardia di una vecchia polveriera inutilizzata situata nei boschi in cui si viveva, presa di mira da alcuni briganti (senza nome, senza volto, senza particolare inquadratura descrittiva), dopo vari tentativi di sopravvivere (verrà licenziato, cioè allontanato, per una presunta incertezza durante un altro tentativo da parte dei briganti), riscatta e riconquista a un tempo se stesso nel momento in cui decide di non attuare contro i responsabili la sua illusoria vendetta, al cospetto della riappacificante immobilità della montagna.
Tutto qui. Nelle poco più delle centinaia di pagine del romanzo, non succede nulla. Ma tanto avviene all’interno di Barnabo.
Dice correttamente Silvana Cirillo nel suo saggio Fantastici, surrealisti e realisti magici, nella parte dedicata appunto a Buzzati: I personaggi buzzattiani sono sempre alla ricerca di un appiglio, un qualcosa che renda il tempo tollerabile, perché scaturisca un’armonia tra principio e fine e non rimanga solo l’assurdo a regolarlo: in realtà non avvengono passaggi o movimenti, tranne quello “vorticoso” del tempo; tutto pare stagnare in una stanca immobilità. (…) Le immagini della fantasia proiettano i desideri dell’anima sulla realtà e, piccoli o grandi che siano, cambiano il mondo di pari passo. Così in Barnabo e nel Deserto il concetto del tempo è misurato sul metro delle attese e delle speranze. (…) Il romanzo di Buzzati, senza dare nell’occhio, si trasforma nel suo contrario: in un “antiromanzo”, senza sviluppi di fatti e personaggi e dove tutto può e deve accadere.
Dunque antiromanzo, poi l’attesa e soprattutto il tempo. Ma se Barnabo in qualche modo sembrava consegnare ai lettori una speranza di sopravvivenza (1933), ne Il deserto (1940) questa speranza ha ormai pochi appigli nella realtà. Se questo fosse legata ai tempi che si vivevano, mah, forse qualcun altro potrà dirlo.
L’edizione da noi considerata è:
Dino Buzzati
Barnabo delle montagne
Garzanti
Il perché è molto semplice: pur non essendo un emarginato o un solitario (per quanto, stando a quanto si racconta, non preferisse andare per i premi letterari o per gli incontri intellettuali), le sue storie raccontano di situazioni e di avvenimenti che mal si adattavano ai tempi che si viveva o alle tematiche narrative che si prediligevano. Può essere considerato un banco di prova dell’atteggiamento cauto tenuto dalla critica italiana riguardo al genere fantastico (ma diciamo che, nonostante questa avversione, il genere fantastico nella letteratura italiana è sempre stato ben presente, anche con autori fidati e rispettati).
Personalmente ho un ricordo ben preciso di Buzzati durante gli anni di scuola, precisamente quelli liceali. Si sa, il novecento sia storico che soprattutto letterario ha sempre avuto poca fortuna negli anni di studio (ma anche ora è così), ma al liceo avevo una professoressa d’italiano che ogni tanto sviava dal percorso imposto dai superiori e con una attenzione e oserei dire un sentimento ben determinato ci parlava di momenti ed esperienze che, credo, volesse in qualche modo dividerle coi suoi alunni.
Bene. Un giorno si presentò con un Oscar Mondadori e con un autore che, anche qui credo, pochi di noi, se non tutti, poco si conosceva (o affatto): Dino Buzzati e il suo Il deserto dei Tartari. Ci parlò molto convintamente della trama, dei suoi personaggi e per farci capire l’essenza stessa della storia, ripeté costantemente una parola che nel corso degli anni mi accompagnò nella riflessione e nella conoscenza di Buzzati: l’attesa.
L’attesa di un avvenimento che si credeva vicino ma che mai, e poi mai, si sarebbe rivelato, aspettando invece la morte. Ecco, per me Buzzati è, ed è sempre stato, lo scrittore che più di ogni altro mi ha aiutato a comprendere cos’è l’attesa e soprattutto cos’è il significato della morte.
Barnabo delle montagne, il primo romanzo dello scrittore di Belluno (ma la sua attività si svolse quasi unicamente a Milano dove, nel 1928, fu assunto come cronista ne Il Corriere della Sera), pubblicato nel 1933 è la storia assai simile a quella de Il deserto dei tartari, ma anche con qualche differenza non di poco conto.
Il montanaro Barnabo, a guardia di una vecchia polveriera inutilizzata situata nei boschi in cui si viveva, presa di mira da alcuni briganti (senza nome, senza volto, senza particolare inquadratura descrittiva), dopo vari tentativi di sopravvivere (verrà licenziato, cioè allontanato, per una presunta incertezza durante un altro tentativo da parte dei briganti), riscatta e riconquista a un tempo se stesso nel momento in cui decide di non attuare contro i responsabili la sua illusoria vendetta, al cospetto della riappacificante immobilità della montagna.
Tutto qui. Nelle poco più delle centinaia di pagine del romanzo, non succede nulla. Ma tanto avviene all’interno di Barnabo.
Dice correttamente Silvana Cirillo nel suo saggio Fantastici, surrealisti e realisti magici, nella parte dedicata appunto a Buzzati: I personaggi buzzattiani sono sempre alla ricerca di un appiglio, un qualcosa che renda il tempo tollerabile, perché scaturisca un’armonia tra principio e fine e non rimanga solo l’assurdo a regolarlo: in realtà non avvengono passaggi o movimenti, tranne quello “vorticoso” del tempo; tutto pare stagnare in una stanca immobilità. (…) Le immagini della fantasia proiettano i desideri dell’anima sulla realtà e, piccoli o grandi che siano, cambiano il mondo di pari passo. Così in Barnabo e nel Deserto il concetto del tempo è misurato sul metro delle attese e delle speranze. (…) Il romanzo di Buzzati, senza dare nell’occhio, si trasforma nel suo contrario: in un “antiromanzo”, senza sviluppi di fatti e personaggi e dove tutto può e deve accadere.
Dunque antiromanzo, poi l’attesa e soprattutto il tempo. Ma se Barnabo in qualche modo sembrava consegnare ai lettori una speranza di sopravvivenza (1933), ne Il deserto (1940) questa speranza ha ormai pochi appigli nella realtà. Se questo fosse legata ai tempi che si vivevano, mah, forse qualcun altro potrà dirlo.
L’edizione da noi considerata è:
Dino Buzzati
Barnabo delle montagne
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