RECENSIONI
Julia Glass
Tre volte giugno
Nutrimenti, Pag 461 Euro 17,00
Questo è un libro sulla morte, ma è godibile, a tratti spensierato, a tratti divertente, ma non indugia sul vezzo ferale dello scrittore compreso di sé.
Stando a quel che si legge nei risvolti di copertina è un romanzo che ha avuto un lungo travaglio, ridefinito e riadattato per molti anni e poi emotivamente partorito come vera e propria fatica del vivere.
E presentato ai lettori con un sottile inganno: lo si vuole pensare trino, cioè sistematicamente diviso in tre parti dove l'una è conseguenza, a volte anticipazione, a volte lineare rappresentazione delle altre due. A lettura finita si capisce che, al di là della costruzione della storia a flash, in un susseguirsi a volte schizofrenico delle emozioni, la struttura intera si regge sulle spalle di un unico personaggio e gli altri, pur se in primo piano in frangenti delicati e decisivi, sono solo un contorno, anche se volutamente speziato, davvero come pietanza.
Il personaggio centrale è Fenno, primogenito di una famiglia scozzese che, nel corso del tempo, perde le proprie radici disperdendosi qua e là: lui decide di vivere a New York aprendo una libreria specializzata in ornitologia. Qui vive le sue stagioni diviso tra un'amicizia intensa con un critico musicale affetto da AIDS, un rapporto "aperto" con un artista che preferisce vivere a Parigi e una fedeltà al senso della famiglia e alla famiglia stessa che lo porterà a donare il proprio seme alla cognata perché il fratello sterile possa avere finalmente un figlio.
Comunque vogliate porvi di fronte a questo romanzo, credo che il vero deus ex machina della storia sia proprio Fenno: delicatamente tratteggiato da una scrittrice che - a voler essere benevolmente pettegoli conosce alla perfezione il mondo e il "contorno" gay - delinea un personaggio mai esagerato, mai invadente, mai cospirante. Una figura che attraversa gli anni con la consapevolezza intima di non dover dar conto a nessuno e soprattutto non dover far i conti eccessivamente con i propri sensi di colpa.
Gli americani hanno scritto bene: Julia Glass rinnova gli schemi tipici del romanzo tradizionale sui rapporti sociali e sulla sua scrittura si ravvede la lezione di una Virginia Woolf o di una Elizabeth Bowen. Al contrario della Woolf però, se questo può avere un senso, è meno ossessiva, meno "autocompiacente" delle proprie insofferenze esistenziali. Con un tocco di magia, ma senza usare una bacchetta, i personaggi della Glass (Fenno in particolare, ovvio) sembrano più "in pace" con la morte e con le conseguenze che essa fa esplodere. Per questo all'inizio si diceva che pur affrontando il tema della dipartita (all'inizio muore la mamma di Fenno, poi il padre, poi l'amico malato di AIDS) il romanzo non è affatto funereo, anzi, si districa con misura perfetta attraverso le contraddizioni dei personaggi e le loro debolezze, scavando con ironia e azzeccata gestione dei tempi narrativi.
Insomma una piacevole sorpresa: un romanzo che vedrei film – peccato solo, ma è una mia personalissima visione del "passato" – il marchio asfissiante dell'AIDS come sorta di chiave di lettura di un'intera generazione di scrittori e non solo. Nella Glass s'intuisce una necessità di gestire il "caso": lo fa con misura, ma ci casca come l'asino.
Unica pecca. Il resto si legge con vero piacere. E non è davvero poco di questi tempi.
di Alfredo Ronci
Stando a quel che si legge nei risvolti di copertina è un romanzo che ha avuto un lungo travaglio, ridefinito e riadattato per molti anni e poi emotivamente partorito come vera e propria fatica del vivere.
E presentato ai lettori con un sottile inganno: lo si vuole pensare trino, cioè sistematicamente diviso in tre parti dove l'una è conseguenza, a volte anticipazione, a volte lineare rappresentazione delle altre due. A lettura finita si capisce che, al di là della costruzione della storia a flash, in un susseguirsi a volte schizofrenico delle emozioni, la struttura intera si regge sulle spalle di un unico personaggio e gli altri, pur se in primo piano in frangenti delicati e decisivi, sono solo un contorno, anche se volutamente speziato, davvero come pietanza.
Il personaggio centrale è Fenno, primogenito di una famiglia scozzese che, nel corso del tempo, perde le proprie radici disperdendosi qua e là: lui decide di vivere a New York aprendo una libreria specializzata in ornitologia. Qui vive le sue stagioni diviso tra un'amicizia intensa con un critico musicale affetto da AIDS, un rapporto "aperto" con un artista che preferisce vivere a Parigi e una fedeltà al senso della famiglia e alla famiglia stessa che lo porterà a donare il proprio seme alla cognata perché il fratello sterile possa avere finalmente un figlio.
Comunque vogliate porvi di fronte a questo romanzo, credo che il vero deus ex machina della storia sia proprio Fenno: delicatamente tratteggiato da una scrittrice che - a voler essere benevolmente pettegoli conosce alla perfezione il mondo e il "contorno" gay - delinea un personaggio mai esagerato, mai invadente, mai cospirante. Una figura che attraversa gli anni con la consapevolezza intima di non dover dar conto a nessuno e soprattutto non dover far i conti eccessivamente con i propri sensi di colpa.
Gli americani hanno scritto bene: Julia Glass rinnova gli schemi tipici del romanzo tradizionale sui rapporti sociali e sulla sua scrittura si ravvede la lezione di una Virginia Woolf o di una Elizabeth Bowen. Al contrario della Woolf però, se questo può avere un senso, è meno ossessiva, meno "autocompiacente" delle proprie insofferenze esistenziali. Con un tocco di magia, ma senza usare una bacchetta, i personaggi della Glass (Fenno in particolare, ovvio) sembrano più "in pace" con la morte e con le conseguenze che essa fa esplodere. Per questo all'inizio si diceva che pur affrontando il tema della dipartita (all'inizio muore la mamma di Fenno, poi il padre, poi l'amico malato di AIDS) il romanzo non è affatto funereo, anzi, si districa con misura perfetta attraverso le contraddizioni dei personaggi e le loro debolezze, scavando con ironia e azzeccata gestione dei tempi narrativi.
Insomma una piacevole sorpresa: un romanzo che vedrei film – peccato solo, ma è una mia personalissima visione del "passato" – il marchio asfissiante dell'AIDS come sorta di chiave di lettura di un'intera generazione di scrittori e non solo. Nella Glass s'intuisce una necessità di gestire il "caso": lo fa con misura, ma ci casca come l'asino.
Unica pecca. Il resto si legge con vero piacere. E non è davvero poco di questi tempi.
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