RECENSIONI
Romana Petri
Tutta la vita
Longanesi, Pag. 425 Euro 18,60
Il romanzo è splendido nella sua interezza, e sostenuto in ogni parte da una forte tensione narrativa, ma le prime 65 pagine sono come la gemma incastonata nell'anello. Perché è in queste prime pagine che si delinea il personaggio di Alcina. Un personaggio a tutto tondo, descritto con una sottigliezza che non è la minuzia dei dettagli, ma la naturalezza che nasce dallo starci dentro. Alcina ha modi tutti suoi, un linguaggio suo, un lessico mutuato in parte da origini dialettali, perché è comunque una donna di campagna, anche se ha studiato da maestra, e in parte forgiato nell'esperienza di un continuo dialogo con se stessa, che è poi dialogo con i suoi morti.
"Guarda come ti conci", disse a bassa voce. "Peggio di te c'è giusto la Jole, ma all'età tua deve essere stata meglio pure se era una contadina. Chissà cosa avrà pensato di te il babbo quando era in vita, guardandoti l'avrà notato che alla mamma somigliavi poco. E' che non hai la grazia, ti manca la grazia,e non è cosa che riguarda solo il femminile, è cosa che riguarda gli umani di ogni sesso, pure un uomo ce la può avere la grazia. Spaltero ce l'ha. E' la grazia che attira. Ma si deve cominciare all'età giusta, e tu non hai cominciato mai. Lo sai di quanta vita sei rimasta indietro? Accidenti se è questo il rimpianto, accidenti se affatica, è come una tosse che non passa mai. Alcina, qui bisogna che cominci a volerti bene, anche questa è filosofia. Cosa che sembra molto da poco e invece è proprio molto."
Questo è il discorso che Alcina rivolge a se stessa mentre si guarda allo specchio, sapendo che il suo uomo, emigrato in Argentina, l'aspetta per sposarla e offrirle una vita nuova. Un uomo che insieme a lei ha combattuto da partigiano, ma che è tanto bello e tanto più giovane di lei, quasi un miracolo. Alcina al miracolo ci vuole credere, anche se si sente vecchia e segnata da grandi lutti che l'hanno lasciata sola. Quello che conta è che non ha chiuso la porta alle emozioni, e anzi le accoglie con il coraggio di lasciarsene anche travolgere. Alcina è genuina in tutti i sensi. C'è la genuinità di Alcina come persona, per come è fatta, nel suo approccio schietto e onesto alla vita, nelle gioie e nei dolori. E c'è la genuinità che l'Autrice è riuscita a dare al personaggio rendendolo vero. Ne scaturiscono scene di grande freschezza, come l'arrivo della lettera dall'Argentina, tanto attesa, che il postino lancia al volo non osando consegnargliela in mano per paura di Vinciguerra, un cane turbolento e selvatico che Alcina ha raccolto dalla strada e che tiene come unica compagnia.
... nonostante il lancio calibrato, svolazzò troppo a bassa quota e chi la prese al volo fu Vinciguerra, che sentendosi la bocca piena dimenticò il postino e si mise a correre su per il greppo sgrullando il testone così come avrebbe fatto se al posto della lettera avesse avuto in bocca un gatto. Alcina gli andò dietro più imbestialita di quanto fosse lui, ma siccome nei giorni addietro era piovuto e il greppo era molle di fango, nella corsa perse una scarpa e cadde, e si sporcò tutta e si mise a urlare come una dannata dell'inferno, e si rialzò in piedi che sembrava uscita di senno, e riprese a correre zoppata dalla terra che le risucchiava il piede nudo (...) Alcina afferrò la lettera quasi buttandocisi sopra e cadendo un'altra volta. Era sbavata, un po' insanguinata, nel centro pure bucata dalle zanne aguzze di quel cane mezzo matto, ma finalmente ce l'aveva in mano e dalla contentezza le venne quasi un capogiro che la fece ridere di confusione, e ridotta ormai com'era s'accorse del postino che ancora la guardava.
La prima parte potrebbe dunque essere una storia a sé, per come già essenziale e completo è il quadro che ne scaturisce, per come si entra in contatto con i personaggi in modo diretto, con la pancia. Senza tentare paragoni letterari, posso semplicemente confessare di aver provato sensazioni simili addentrandomi nel mondo contadino descritto da Beppe Fenoglio. Il resto del romanzo si svolge in Argentina, dove le storie individuali arrivano gradualmente a collidere con le tragiche vicende della dittatura di Videla. Qui ci aspettano lacrime e sangue, senza che i personaggi perdano la loro umanità.
di Giovanna Repetto
"Guarda come ti conci", disse a bassa voce. "Peggio di te c'è giusto la Jole, ma all'età tua deve essere stata meglio pure se era una contadina. Chissà cosa avrà pensato di te il babbo quando era in vita, guardandoti l'avrà notato che alla mamma somigliavi poco. E' che non hai la grazia, ti manca la grazia,e non è cosa che riguarda solo il femminile, è cosa che riguarda gli umani di ogni sesso, pure un uomo ce la può avere la grazia. Spaltero ce l'ha. E' la grazia che attira. Ma si deve cominciare all'età giusta, e tu non hai cominciato mai. Lo sai di quanta vita sei rimasta indietro? Accidenti se è questo il rimpianto, accidenti se affatica, è come una tosse che non passa mai. Alcina, qui bisogna che cominci a volerti bene, anche questa è filosofia. Cosa che sembra molto da poco e invece è proprio molto."
Questo è il discorso che Alcina rivolge a se stessa mentre si guarda allo specchio, sapendo che il suo uomo, emigrato in Argentina, l'aspetta per sposarla e offrirle una vita nuova. Un uomo che insieme a lei ha combattuto da partigiano, ma che è tanto bello e tanto più giovane di lei, quasi un miracolo. Alcina al miracolo ci vuole credere, anche se si sente vecchia e segnata da grandi lutti che l'hanno lasciata sola. Quello che conta è che non ha chiuso la porta alle emozioni, e anzi le accoglie con il coraggio di lasciarsene anche travolgere. Alcina è genuina in tutti i sensi. C'è la genuinità di Alcina come persona, per come è fatta, nel suo approccio schietto e onesto alla vita, nelle gioie e nei dolori. E c'è la genuinità che l'Autrice è riuscita a dare al personaggio rendendolo vero. Ne scaturiscono scene di grande freschezza, come l'arrivo della lettera dall'Argentina, tanto attesa, che il postino lancia al volo non osando consegnargliela in mano per paura di Vinciguerra, un cane turbolento e selvatico che Alcina ha raccolto dalla strada e che tiene come unica compagnia.
... nonostante il lancio calibrato, svolazzò troppo a bassa quota e chi la prese al volo fu Vinciguerra, che sentendosi la bocca piena dimenticò il postino e si mise a correre su per il greppo sgrullando il testone così come avrebbe fatto se al posto della lettera avesse avuto in bocca un gatto. Alcina gli andò dietro più imbestialita di quanto fosse lui, ma siccome nei giorni addietro era piovuto e il greppo era molle di fango, nella corsa perse una scarpa e cadde, e si sporcò tutta e si mise a urlare come una dannata dell'inferno, e si rialzò in piedi che sembrava uscita di senno, e riprese a correre zoppata dalla terra che le risucchiava il piede nudo (...) Alcina afferrò la lettera quasi buttandocisi sopra e cadendo un'altra volta. Era sbavata, un po' insanguinata, nel centro pure bucata dalle zanne aguzze di quel cane mezzo matto, ma finalmente ce l'aveva in mano e dalla contentezza le venne quasi un capogiro che la fece ridere di confusione, e ridotta ormai com'era s'accorse del postino che ancora la guardava.
La prima parte potrebbe dunque essere una storia a sé, per come già essenziale e completo è il quadro che ne scaturisce, per come si entra in contatto con i personaggi in modo diretto, con la pancia. Senza tentare paragoni letterari, posso semplicemente confessare di aver provato sensazioni simili addentrandomi nel mondo contadino descritto da Beppe Fenoglio. Il resto del romanzo si svolge in Argentina, dove le storie individuali arrivano gradualmente a collidere con le tragiche vicende della dittatura di Videla. Qui ci aspettano lacrime e sangue, senza che i personaggi perdano la loro umanità.
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