RECENSIONI
Enzo Scandurra
Un paese ci vuole
Città aperta, Pag. 180 Euro 13,50
Recensendo la romana "guida" inusuale di Fulvio Abbate, a uno di noi è capitato di citare Rutilio Namaziano - non si fa, non è buona educazione - il quale, nel vantare l'Urbe morente, le allegava codesto merito: "Del Mondo facesti una città, d'una Città il mondo".
Si credeva fosse pretta retorica: invece, è un problema. O meglio, problema di problema. Scandurra - ordinario di Urbanistica alla Sapienza, e anche questo non è bene: perché essere ordinari quando si può essere eccezionali? - nella prima parte del suo testo, quella di dottrina, così dice, riprendendo da Paul Virilio: Il mondo-città e la città-mondo appaiono intrecciate l'una all'altra ma in modo contraddittorio: il mondo-città rappresenta l'ideale e l'ideologia del sistema della globalizzazione, nella città-mondo si esprimono le contraddizioni e le tensioni storiche generate dal sistema.(p. 101) E già sarebbe un problema: il biosistema Gaia (la Gea Tellus, la Madre Terra, (p. 77) la sabina Feronia, il pianeta vivente che occupiamo come gli enterococchi il nostro intestino: p. 115) "non è stato progettato per questo", per riprendere una battuta da Viaggio allucinante: (1) ovvero per annientare ogni biodiversità, o asservirla o modificarla secondo l'utile della bestia-uomo, confortato dalla sua filosofia tecnicista, bacon-cartesiana, quantitativa. (pp. 135 e segg.)
Perdipiù, marxianamente, l'uomo modificando il suo habitat modifica sé stesso: la produzione di merci è produzione di umanità. La globalizzazione e la mediatizzazione (p. 103-108) sono nonluoghi della frammentazione ("flussi senza luoghi, divenire continuo", come in chimica le strutture dissipative); della negazione della memoria per distruzione ("I luoghi (...) vanno rimossi, sostituiti dallo spazio indifferenziato (...) supporto sul quale disegnare e ri-disegnare la storia") o per induzione d'una falsa ("la parola d'ordine vincente è "fare impresa", che poi significa organizzare una realtà virtuale fatta di messaggi pubblicitari, parole d'ordine prive di senso ma condivise, identità false"); della soggettività malata, edonista, egoista, infantile (il freudiano "ego senza io", e qui cfr. pp.122-3); della periferizzazione, intesa come "invisibilità (di) masse di persone, perlopiù giovani e donne, che vengono tenute ai bordi del benessere e dello sviluppo", in conseguenza del fatto che "il lavoro non è più necessario" - così, l'unica condizione permanente è la precarietà.
Date per come sono, globalismo e media (de)formano l'uomo a loro immagine e somiglianza: già (p. 111) "i fautori del libero mercato e i terroristi si siedono gli uni di fronte agli altri (...) ed è impossibile distinguerli"; (2) poi, con "la crisi della politica là dove questa ha perso l'orizzonte di un'esistenza dignitosa degli esseri umani, là dove questa si è ridotta a pura amministrazione", (p. 129) si verifica la trasformazione dell'"intero genere umano in combustibile per continuare a produrre merci in un universo gelido e desolato". (ibidem) Quest'individuo, come un elettrone-autovalore dell'equazione di Schrödinger delocalizzato in un mondo ove ogni luogo ha la medesima funzione (e dunque è interscambiabile, omologo) e ogni tempo è il medesimo tempo ("un futuro che sembra passato, un presente che sembra già futuro e passato insieme", p. 112), è pronto ad aderire ai codici "della competizione, della modernizzazione, dell'innovazione, dell'eventizzazione, della carnevalizzazione, del produttivismo e dell'efficientismo". (p. 135) Nazista se tutti son nazisti, globalizzato se l'"imperativo categorico" è l'omologazione: infinitamente malleabile, l'uomo s'adatta a ogni 1984 - tanto più a quello che, del capolavoro di Orwell, fu l'immediato ispiratore: il "collettivismo oligarchico", il Diamat, lo stalinismo infine.
Però, se la distopia del signor Blair (ex agente lui, e figlio di un funzionario, della polizia coloniale inglese) fosse stata solo e tanto un ricalco dell' (allora: 1948) esistente, non sarebbe quel libro metafisico che è. Il suo romanzo è critico della filosofia economico-politica che si fa potere incarnato, potere che schiaccia col suo stivale per l'eternità il volto dei suoi sudditi, e da loro viene benedetto ("ah, se Stalin sapesse", si mormorava alla Lubianka, nei gulag): in ciò, si fa macchina analitica di ogni potere, ne illustra la forma logica, ne esamina autopticamente il linguaggio - inutile ricordare la completezza e la consistenza dell'indagine che Orwell dedica al newspeak, e al doublethink. E si garantisce l'immortalità, siccome il limite a cui tende ogni ideologia è l'organamento: l'accidentale diviene necessario, la cultura natura, il pensiero fisiologia.
Eppure - lo si suggerisce nell' "'84", dove si parla dei tentativi degli scienziati d'Oceania di convertire il sommo piacere dell'orgasmo in acuto di dolore - l'uomo ha un alleato potente che lo allontana dal potere onnipervasivo: il corpo, e quel che v'è legato. Nota Scandurra, a proposito della memoria, che la modernizzazione del summenzionato "fare impresa" implica la sparizione delle "corporeità", de "i corpi in carne e ossa, le storie vere delle persone, le loro sofferenze e le loro passioni". (p. 106) Insomma: l'Autore, qui e dove rammenta le "tradizioni che potrebbero rivelarsi efficaci per contrastare il dominio della tecnica", (p. 138) indica delle vie di fuga praticabili, delle sirene da ascoltare. Serio, le indaga come opportunità vincolanti, (pp. 124-129) così come si premura di scandagliare con attenzione (pp. 114-121) multiculturalismo e convivenza tra diversi, rifiutandosi al "volemose bbene" e facilismi riduttivi del genere.
Corpo, corporeità, memoria, definizione di luoghi e tempi, senso della comunità - insomma antidoti - sono le ragioni che muovono la seconda, più ridotta, sezione dell'argomento di Scandurra: l'Autore penetra nel Suo testo, collega macro e microstoria, si fa corpo vile del suo esperimento cruciale, e si racconta bambino e ragazzo nella Roma '50-'70 del Prenestino e di piazza Vittorio - i non quiriti ne hanno avuto saggi da Roma città aperta ad Accattone, passando per Il ferroviere e Bellissima, sino al recentissimo L'orchestra di piazza Vittorio. E' una Roma di cui dunque si sa, ma della quale continuiamo a voler sapere, alla faccia di chi vorrebbe negarla: non povera né ricca, periferia allora e oggi quasi centro, oratoriale e comunista, padrona d'una sua lingua - il "romanaccio" dalla sintassi sudista ("me farebbe un fiasco de vino se c'avrei li sòrdi", p. 162)(3) - e dunque una sua forma di vita, teatro d'una rappresentazione collettiva negata a nessuno, se però sapeva ben interpretare il proprio ruolo (assumere il proprio senso). Esempio: ricca di cinemoni e cinemini, la zona popolare richiamava i froci. (pp. 157-8) (4) L'Autore (5) li dipinge al vero: "solitari, spaventati, insicuri", terrorizzati d'esser presi a cazzotti, individualisti pur di non correre il rischio di venir identificati, "si tenevano alla larga dal genere umano". Però non nasconde l'altra faccia della luna: "Se volevi incontrare un frocio, dovevi andare a un cinema, ma farti pagare altrimenti anche tu passavi per frocio". Non solo: "In via della Marranella c'era un barbiere frocio. Alcuni ci andavano a farsi tagliare i capelli perché se "ci stavi" (qualche toccata al pisellino, sopra i pantaloni) ti faceva lo sconto". (p. 155) Certo, "la cosa" era indicibile - "nessuno ti spiegava chi erano e cosa facevano, ma solo di stare attento" (ibidem) -, ma non meno concreta. E affascinante, e volenterosa, o almeno tollerato sfogatoio sessuale dei giovani maschi ingrifàti e saturi di sbùro, (6) in piena "morale mediterranea", (7) che preferiva quest'attività all'eventuale ingombro d'una fanciulla gravida.
Mi sono soffermato su questo aspetto della quistione perché tutti, oggi e prima, sono ed erano pronti a decantare il natìo borgo selvaggio in ogni suo strapaesano e folcloristico e sinanco feroce dettaglio: ma ci vuole qualcuno che ami la realtà - lo scienziato, dunque - per avere certi coerenti riporti. E per farne, Orwell seguendo, (8) questione di lingua: "Quando sei ragazzino alcune parole acquistano un significato magico. Non sai cosa vogliono dire, ma assumi, quando li senti nominare, l'atteggiamento che hai visto assumere dagli altri. Era il caso dei froci". (p. 156) E ancora: "Al Prenestino, come in tutte le altre periferie, non c'erano omosessuali: al Prenestino, come in tutte le altre periferie romane c'erano i froci". (p. 157) Concludo perciò che il discorso dell'Autore, discutibile che sia, pone l'Urbe in una prospettiva d'autenticità, cogliendone l'aspetto mondano e quello particolare, lo scenografico e il quotidiano, rinnovando così lo sguardo che fu dei maestri (Fellini, va beh...), e confermandolo con ogni apporto conoscitivo possibile.
E dopo tutto ciò e a suo merito, tuttavia il Nostro cade nel riporto assertivo delle parole di due intellettuali: i quali "raccontano di come, quando abitavano accanto a Pasolini, lo sentivano uscire di notte come a iniziare una caccia. Quella volta, nel 1975, in piazza della Repubblica, la caccia di Pasolini finì tragicamente". (p. 158)
Che io sappia, dalla caccia è il cacciatore a uscire illeso. (9) Se ci rimane, forse di caccia non bisognerebbe parlare.
1)Regia di Richard Fleischer. Con Stephen Boyd, Raquel Welch, Edmond O'Brien. USA, 1966. Dall'omonimo romanzo di Isaac Asimov, pubblicato in Italia negli Oscar Mondadori;
2)Trito pasolinismo, si dirà: il ragazzo di destra indistinguibile da quello di sinistra, l'omologazione, etc.. Ma l'Autore cita Homi K. Bhabha, studioso - s'intende dal nome - inesposto a tali suggestioni. Vero è che P.P.P. ha flirtato con l'India, ma insomma...;
3)"che tte farebbe!", ancor oggi mormora il pappagallo romanesco alle passanti. E Lella Costa ne fa giustizia in un suo spettacolo, rivolgendosi idealmente a uno di loro e castigandolo: ""Ti farei!" Semmai si dice "Ti farei!"". Lèggilo, ch'è divertente, in La daga nel loden, Feltrinelli, Milano 1993(4), p. 142;
4)in Splendori e miserie di madame Royale, piccolo capolavoro di cultura frocio-travesta dovuto a Vittorio Caprioli e Ugo Tognazzi, si nomina il Due Allori, una delle sale cinematografiche qui rammentate per lo stesso motivo;
5)Nota per i cretini e le vergini vestali: Scandurra NON E' frocio;
6)Sperma, liquido seminale. Sinonimi nel vernacolo: sbòra, sbòrra, sbòbba - con la bella onomatopea del suono sb- che bene rende il prorompere di qualcosa di viscoso;
7)Un "Mediterraneo" che direi piuttosto allargato. Vedi Ernesto, di Saba;
8)Non solo. Il Nostro, a un capitolo a p. 113, premette: "Il mandarino pose al saggio la domanda: "Che cosa farebbe se diventasse il padrone del mondo?". Il saggio rifletté un istante e rispose: "Comincerei dal definire il senso delle parole". E Lavoisier voleva la scienza come una lingua ben costruita. Nel Discorso preliminare al suo Trattato elementare di chimica, scriveva: "Condillac ha stabilito che (...) l'arte di ragionare si riduce ad una lingua ben fatta. (...) Poiché le parole servono a conservare le idee e a trasmetterle, risulta chiaro che non si può perfezionare il linguaggio senza perfezionare la scienza, né la scienza senza il linguaggio, e per quanto certi siano i fatti, per quanto giuste siano le idee che essi hanno fatto nascere trasmetterebbero pur sempre impressioni false se non fossimo in possesso di espressioni esatte per rendere queste idee". Da A. L. Lavoisier, Memorie scientifiche, Theoria, Roma 1986, p. 188. In tali righe, aggiungerei, c'è intera una teoria (o theoria) della letteratura;
9)Non è solo un parere mio. Lo suppone anche Ascanio Celestini, in un suo monologo per Parla con me, talk show domenicale condotto da Serena Dandini e Dario Vergassola.
di Marco Lanzòl
Si credeva fosse pretta retorica: invece, è un problema. O meglio, problema di problema. Scandurra - ordinario di Urbanistica alla Sapienza, e anche questo non è bene: perché essere ordinari quando si può essere eccezionali? - nella prima parte del suo testo, quella di dottrina, così dice, riprendendo da Paul Virilio: Il mondo-città e la città-mondo appaiono intrecciate l'una all'altra ma in modo contraddittorio: il mondo-città rappresenta l'ideale e l'ideologia del sistema della globalizzazione, nella città-mondo si esprimono le contraddizioni e le tensioni storiche generate dal sistema.(p. 101) E già sarebbe un problema: il biosistema Gaia (la Gea Tellus, la Madre Terra, (p. 77) la sabina Feronia, il pianeta vivente che occupiamo come gli enterococchi il nostro intestino: p. 115) "non è stato progettato per questo", per riprendere una battuta da Viaggio allucinante: (1) ovvero per annientare ogni biodiversità, o asservirla o modificarla secondo l'utile della bestia-uomo, confortato dalla sua filosofia tecnicista, bacon-cartesiana, quantitativa. (pp. 135 e segg.)
Perdipiù, marxianamente, l'uomo modificando il suo habitat modifica sé stesso: la produzione di merci è produzione di umanità. La globalizzazione e la mediatizzazione (p. 103-108) sono nonluoghi della frammentazione ("flussi senza luoghi, divenire continuo", come in chimica le strutture dissipative); della negazione della memoria per distruzione ("I luoghi (...) vanno rimossi, sostituiti dallo spazio indifferenziato (...) supporto sul quale disegnare e ri-disegnare la storia") o per induzione d'una falsa ("la parola d'ordine vincente è "fare impresa", che poi significa organizzare una realtà virtuale fatta di messaggi pubblicitari, parole d'ordine prive di senso ma condivise, identità false"); della soggettività malata, edonista, egoista, infantile (il freudiano "ego senza io", e qui cfr. pp.122-3); della periferizzazione, intesa come "invisibilità (di) masse di persone, perlopiù giovani e donne, che vengono tenute ai bordi del benessere e dello sviluppo", in conseguenza del fatto che "il lavoro non è più necessario" - così, l'unica condizione permanente è la precarietà.
Date per come sono, globalismo e media (de)formano l'uomo a loro immagine e somiglianza: già (p. 111) "i fautori del libero mercato e i terroristi si siedono gli uni di fronte agli altri (...) ed è impossibile distinguerli"; (2) poi, con "la crisi della politica là dove questa ha perso l'orizzonte di un'esistenza dignitosa degli esseri umani, là dove questa si è ridotta a pura amministrazione", (p. 129) si verifica la trasformazione dell'"intero genere umano in combustibile per continuare a produrre merci in un universo gelido e desolato". (ibidem) Quest'individuo, come un elettrone-autovalore dell'equazione di Schrödinger delocalizzato in un mondo ove ogni luogo ha la medesima funzione (e dunque è interscambiabile, omologo) e ogni tempo è il medesimo tempo ("un futuro che sembra passato, un presente che sembra già futuro e passato insieme", p. 112), è pronto ad aderire ai codici "della competizione, della modernizzazione, dell'innovazione, dell'eventizzazione, della carnevalizzazione, del produttivismo e dell'efficientismo". (p. 135) Nazista se tutti son nazisti, globalizzato se l'"imperativo categorico" è l'omologazione: infinitamente malleabile, l'uomo s'adatta a ogni 1984 - tanto più a quello che, del capolavoro di Orwell, fu l'immediato ispiratore: il "collettivismo oligarchico", il Diamat, lo stalinismo infine.
Però, se la distopia del signor Blair (ex agente lui, e figlio di un funzionario, della polizia coloniale inglese) fosse stata solo e tanto un ricalco dell' (allora: 1948) esistente, non sarebbe quel libro metafisico che è. Il suo romanzo è critico della filosofia economico-politica che si fa potere incarnato, potere che schiaccia col suo stivale per l'eternità il volto dei suoi sudditi, e da loro viene benedetto ("ah, se Stalin sapesse", si mormorava alla Lubianka, nei gulag): in ciò, si fa macchina analitica di ogni potere, ne illustra la forma logica, ne esamina autopticamente il linguaggio - inutile ricordare la completezza e la consistenza dell'indagine che Orwell dedica al newspeak, e al doublethink. E si garantisce l'immortalità, siccome il limite a cui tende ogni ideologia è l'organamento: l'accidentale diviene necessario, la cultura natura, il pensiero fisiologia.
Eppure - lo si suggerisce nell' "'84", dove si parla dei tentativi degli scienziati d'Oceania di convertire il sommo piacere dell'orgasmo in acuto di dolore - l'uomo ha un alleato potente che lo allontana dal potere onnipervasivo: il corpo, e quel che v'è legato. Nota Scandurra, a proposito della memoria, che la modernizzazione del summenzionato "fare impresa" implica la sparizione delle "corporeità", de "i corpi in carne e ossa, le storie vere delle persone, le loro sofferenze e le loro passioni". (p. 106) Insomma: l'Autore, qui e dove rammenta le "tradizioni che potrebbero rivelarsi efficaci per contrastare il dominio della tecnica", (p. 138) indica delle vie di fuga praticabili, delle sirene da ascoltare. Serio, le indaga come opportunità vincolanti, (pp. 124-129) così come si premura di scandagliare con attenzione (pp. 114-121) multiculturalismo e convivenza tra diversi, rifiutandosi al "volemose bbene" e facilismi riduttivi del genere.
Corpo, corporeità, memoria, definizione di luoghi e tempi, senso della comunità - insomma antidoti - sono le ragioni che muovono la seconda, più ridotta, sezione dell'argomento di Scandurra: l'Autore penetra nel Suo testo, collega macro e microstoria, si fa corpo vile del suo esperimento cruciale, e si racconta bambino e ragazzo nella Roma '50-'70 del Prenestino e di piazza Vittorio - i non quiriti ne hanno avuto saggi da Roma città aperta ad Accattone, passando per Il ferroviere e Bellissima, sino al recentissimo L'orchestra di piazza Vittorio. E' una Roma di cui dunque si sa, ma della quale continuiamo a voler sapere, alla faccia di chi vorrebbe negarla: non povera né ricca, periferia allora e oggi quasi centro, oratoriale e comunista, padrona d'una sua lingua - il "romanaccio" dalla sintassi sudista ("me farebbe un fiasco de vino se c'avrei li sòrdi", p. 162)(3) - e dunque una sua forma di vita, teatro d'una rappresentazione collettiva negata a nessuno, se però sapeva ben interpretare il proprio ruolo (assumere il proprio senso). Esempio: ricca di cinemoni e cinemini, la zona popolare richiamava i froci. (pp. 157-8) (4) L'Autore (5) li dipinge al vero: "solitari, spaventati, insicuri", terrorizzati d'esser presi a cazzotti, individualisti pur di non correre il rischio di venir identificati, "si tenevano alla larga dal genere umano". Però non nasconde l'altra faccia della luna: "Se volevi incontrare un frocio, dovevi andare a un cinema, ma farti pagare altrimenti anche tu passavi per frocio". Non solo: "In via della Marranella c'era un barbiere frocio. Alcuni ci andavano a farsi tagliare i capelli perché se "ci stavi" (qualche toccata al pisellino, sopra i pantaloni) ti faceva lo sconto". (p. 155) Certo, "la cosa" era indicibile - "nessuno ti spiegava chi erano e cosa facevano, ma solo di stare attento" (ibidem) -, ma non meno concreta. E affascinante, e volenterosa, o almeno tollerato sfogatoio sessuale dei giovani maschi ingrifàti e saturi di sbùro, (6) in piena "morale mediterranea", (7) che preferiva quest'attività all'eventuale ingombro d'una fanciulla gravida.
Mi sono soffermato su questo aspetto della quistione perché tutti, oggi e prima, sono ed erano pronti a decantare il natìo borgo selvaggio in ogni suo strapaesano e folcloristico e sinanco feroce dettaglio: ma ci vuole qualcuno che ami la realtà - lo scienziato, dunque - per avere certi coerenti riporti. E per farne, Orwell seguendo, (8) questione di lingua: "Quando sei ragazzino alcune parole acquistano un significato magico. Non sai cosa vogliono dire, ma assumi, quando li senti nominare, l'atteggiamento che hai visto assumere dagli altri. Era il caso dei froci". (p. 156) E ancora: "Al Prenestino, come in tutte le altre periferie, non c'erano omosessuali: al Prenestino, come in tutte le altre periferie romane c'erano i froci". (p. 157) Concludo perciò che il discorso dell'Autore, discutibile che sia, pone l'Urbe in una prospettiva d'autenticità, cogliendone l'aspetto mondano e quello particolare, lo scenografico e il quotidiano, rinnovando così lo sguardo che fu dei maestri (Fellini, va beh...), e confermandolo con ogni apporto conoscitivo possibile.
E dopo tutto ciò e a suo merito, tuttavia il Nostro cade nel riporto assertivo delle parole di due intellettuali: i quali "raccontano di come, quando abitavano accanto a Pasolini, lo sentivano uscire di notte come a iniziare una caccia. Quella volta, nel 1975, in piazza della Repubblica, la caccia di Pasolini finì tragicamente". (p. 158)
Che io sappia, dalla caccia è il cacciatore a uscire illeso. (9) Se ci rimane, forse di caccia non bisognerebbe parlare.
1)Regia di Richard Fleischer. Con Stephen Boyd, Raquel Welch, Edmond O'Brien. USA, 1966. Dall'omonimo romanzo di Isaac Asimov, pubblicato in Italia negli Oscar Mondadori;
2)Trito pasolinismo, si dirà: il ragazzo di destra indistinguibile da quello di sinistra, l'omologazione, etc.. Ma l'Autore cita Homi K. Bhabha, studioso - s'intende dal nome - inesposto a tali suggestioni. Vero è che P.P.P. ha flirtato con l'India, ma insomma...;
3)"che tte farebbe!", ancor oggi mormora il pappagallo romanesco alle passanti. E Lella Costa ne fa giustizia in un suo spettacolo, rivolgendosi idealmente a uno di loro e castigandolo: ""Ti farei!" Semmai si dice "Ti farei!"". Lèggilo, ch'è divertente, in La daga nel loden, Feltrinelli, Milano 1993(4), p. 142;
4)in Splendori e miserie di madame Royale, piccolo capolavoro di cultura frocio-travesta dovuto a Vittorio Caprioli e Ugo Tognazzi, si nomina il Due Allori, una delle sale cinematografiche qui rammentate per lo stesso motivo;
5)Nota per i cretini e le vergini vestali: Scandurra NON E' frocio;
6)Sperma, liquido seminale. Sinonimi nel vernacolo: sbòra, sbòrra, sbòbba - con la bella onomatopea del suono sb- che bene rende il prorompere di qualcosa di viscoso;
7)Un "Mediterraneo" che direi piuttosto allargato. Vedi Ernesto, di Saba;
8)Non solo. Il Nostro, a un capitolo a p. 113, premette: "Il mandarino pose al saggio la domanda: "Che cosa farebbe se diventasse il padrone del mondo?". Il saggio rifletté un istante e rispose: "Comincerei dal definire il senso delle parole". E Lavoisier voleva la scienza come una lingua ben costruita. Nel Discorso preliminare al suo Trattato elementare di chimica, scriveva: "Condillac ha stabilito che (...) l'arte di ragionare si riduce ad una lingua ben fatta. (...) Poiché le parole servono a conservare le idee e a trasmetterle, risulta chiaro che non si può perfezionare il linguaggio senza perfezionare la scienza, né la scienza senza il linguaggio, e per quanto certi siano i fatti, per quanto giuste siano le idee che essi hanno fatto nascere trasmetterebbero pur sempre impressioni false se non fossimo in possesso di espressioni esatte per rendere queste idee". Da A. L. Lavoisier, Memorie scientifiche, Theoria, Roma 1986, p. 188. In tali righe, aggiungerei, c'è intera una teoria (o theoria) della letteratura;
9)Non è solo un parere mio. Lo suppone anche Ascanio Celestini, in un suo monologo per Parla con me, talk show domenicale condotto da Serena Dandini e Dario Vergassola.
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