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Il Paradiso degli Orchi
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RECENSIONI

Caradog Prichard

Una notte di luna piena

Mobydick, Pag.192 Euro 14,00
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Un'infanzia magica, povera di tutto tranne che di fantasia e di mistero, e permeata da una natura onnipresente e selvaggiamente vitale. Questo si racconta nel romanzo del gallese Prichard (1904-1980) tradotto per la prima volta dal gallese in italiano da A.Bianchi e S.Siviero. La prefazione di H.P.Jones rivela quanto ci sia di drammaticamente autobiografico in questa storia che inizia come una fiaba e assume pian piano i colori della tragedia.

Si è subito trasportati in un mondo arcaico a cominciare dal linguaggio, fatto di soprannomi che riportano a dati concreti, luoghi, mestieri, episodi rimasti incollati addosso alle persone come brandelli di realtà che si sono trasformati in segni del destino: Now Ovile, Preiss la Scuola, Neil Belvedere, Cet Case Bianche, Wil Colletto Inamidato, Piccolo Harri gli Zoccoli, Jini Fine del Campo, Ann Joss il Negozio, Bob Carretto del Latte, Piccolo Wil Poliziotto e Papà di Piccolo Wil Poliziotto, Meri le Prugne e Now Figlio di Meri le Prugne...

Anche i nomi dei luoghi sono ingenui e rozzamente evocativi: Nuda Collina, Campo delle Pecore, Strada della Posta, Ponte alle stalle, Fine di Lago Nero...

All'inizio si stenta, si rimane straniati, ma è questione di un attimo, presto ci si abitua e da quel momento ci si trova calati in una realtà fuori dal tempo, che è quella di un povero villaggio gallese dove gli uomini lavorano nelle cave di ardesia e le donne si arrabattano per non far mancare mai il pane imburrato sulla magra tavola. Particolarmente dura la vita del protagonista e di sua madre, una donna sola che si mantiene facendo la stiratrice, e ricorrendo spesso alla carità altrui. Nonostante ciò il ragazzo cresce spensierato in compagnia degli amici, senza dare troppo peso alle tragedie che si svolgono davanti ai suoi occhi: violenze e malattie, e i lutti della Grande Guerra. Ma poco importa, può sempre rifugiarsi nel letto della madre, ascoltare i suoi racconti e confidarle i suoi dubbi. Solo quando la malattia mentale di lei (è questa la ferita aperta che l'Autore porta con sé) viene a interrompere l'assolutezza del loro legame, allora il male irrompe nella sua vita, e ogni male diventa possibile.

Raccontato in prima persona con le parole del ragazzo, con il suo stesso respiro, ha momenti di intenso pathos. Come l'episodio della raccolta di mirtilli, che si trasforma in esperienza di timor panico in rapporto ad un paesaggio deserto e vagamente minaccioso. O come quando l'intero villaggio si muove nella notte alla ricerca di un folle.

Quale gruppo seguiamo? dissi.

Io non voglio andare su per Brughiera fino a Cima di Nuda Collina, disse Huw.

Va bene, disse Moi, andremo su per Strada della Posta oltre Canonica e Ponte alle Stalle.

Dew, e se lo vediamo che viene dall'altra parte di Strada della Posta? Disse Huw.

Sta' zitto, scemo, dissi, non lo incontreremo.

Se lo vediamo fischieremo che gli altri ci sentano e corriamo a casa, disse Moi.

(...) C'è un sacco di posti dove può andare se si vuole ammazzare, disse Moi. Se fosse pieno inverno, dovrebbe fare come Moi il Pascolo, andare oltre Brughiera sul fianco di Nuda Collina e sdraiarsi e rimanerci fino al mattino.

(...) O potrebbe, se lo volesse, salire su Cima del Burrone e gettarsi a testa in giù dentro l'Uomo del Lago di Luna, disse Moi. Che non ha fondo.


I primi turbamenti adolescenziali sono colti con delicatezza e poesia.

Quando la vidi quella volta, non portava il cappello, e c'era il sole sui capelli chiarissimi, e c'era un fiore di serra sulla sua testa, e due lunghe trecce con fiocchi rosa le scendevano sulla schiena. Aveva un vestito rosa con tanti colori, come quelli dei fiori che erano davanti alla finestra della serra. E quando si piegò per parlarci, col petto in piena vista, c'era profumo dappertutto, e io cominciai a tremare come una foglia.

L'elemento religioso è ovunque presente con la valenza mitica di un mondo meraviglioso e terribile, in cui però i salmi bilici, che tanto commuovono la semplice gente del villaggio, sembrano avere lo stesso peso delle leggende pagane legate al mondo naturale.

(...) E' la montagna laggiù, sembra la forma di una donna contro il cielo (...) Quella è la Regina di Wyddfa. Quando l'hai vista una volta, dopo la vedrai sempre.

Perché la chiamano la Regina di Wyddfa?

(...)

Perché Wyddfa le appartiene, naturalmente. E dicono che se si alzasse e scendesse da Widdfa, sarebbe la Fine del Mondo.


Prichard è stato paragonato a Joyce. Si potrebbe ugualmente accostare a Faulkner, per il suo modo di integrare frammenti di dialogo, anche minimi, nel flusso di coscienza per la costruzione di una soggettività. O a Salinger, per quel monologo adolescenziale intercalato dal reiterarsi di espressioni gergali. O perfino alla nostra Grazia Deledda, per il senso di fatalità che accomuna l'uomo alla natura.

Il tema più potente del romanzo è certamente il rapporto con il femminile (centrale per il protagonista come per l'Autore). Rapporto intenso e doloroso, cordone ombelicale da recidere nel sangue e che pure dal sangue si alimenta. Che intreccia il destino del ragazzo a quello della madre, fino a renderlo partecipe della malattia di lei. E che lo lega altrettanto intensamente ai miti femminili della natura, alla Regina del Lago Nero come alla Regina scolpita nella montagna, simboli di forze oscure alle quali egli non può che soccombere.



di Giovanna Repetto


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