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Il Paradiso degli Orchi
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RECENSIONI

Amos Oz

Una pace perfetta

Feltrinelli, Pag. 348 Euro 17,50
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Uno prende e se ne va altrove. Quel che si è lasciato alle spalle resta lì e lo osserva mentre se ne va. E dove? In che posto ci si può nascondere , dove si può trovare lo spazio vitale teso allo sforzo di avere un mondo dove tutto possa essere possibile e dove tutto possa accadere? L'amore, il successo folgorante, il brivido del pericolo, gli incontri particolari che cambiano la vita. Dov'è tutto questo?

Yonatan ha 26 anni e troppe domande di cui sfortunatamente conosce le risposte, solo che non ha la forza di dirsele con la voce delle azioni. Osserva e vive il Kibbutz Granot, con il suo inverno piovoso, interminabile. Il buio cala presto e solo il calore dentro le case è capace di consolare. Ma i sogni del giovane sono interminabili e inconsolabili: lui che ama la sua terra, i suoi spazi, ma che non riesce a vivere senza essere preso nella morsa devastante del padre, della famiglia, della responsabilità e di una moglie. Tutto questo rende la coppia malinconica, in cui accanto alla voglia di fuga di Yoni si siede il sogno dei figli della sposa.

Tutti vogliono salvare il ragazzo. Tutti a cercare di salvare la sua anima. Un'anima che sta scappando, ma lo fa su di un tapis roulant che porta il nome del kibbutz in cui vive.

Accanto al giogo del "fuggiasco" ci sono Hava e Yolek, che rimuginano su vecchi rancori e nuove delusioni; Bolognesi, un ex detenuto graziato, un tipo strano che lavora a maglia e borbotta frasi senza senso, incomprensibili. Ad arrivare nell'ennesima notte di pioggia, quando l'acqua cerca di lavare via qualcosa di troppo impregnato nella pelle e nelle ossa, una macchia chiamata "speranza di vita" ecco arrivare Azariah. Giovanissimo, entusiasta. Ingenuo. Le cose cambiano, sembrano muoversi in senso, in un vortice che a poco a poco diventa più ghiotto, più avido di movimento rimettendo le cose a posto, fagocitando le storie di tutti e portandole progressivamente verso il proprio destino, ciascuna con il proprio nome.

Parlare di Oz, della sua scrittura, dei suoi capolavori e di come si dovrebbe leggere un libro così, un romanzo definito dal New York Times come "il più potente libro di Amos Oz" sembra inutile. Lo è. Superfluo come fare del facile citazionismo prendendo ad esempio e comparazione altri capolavori dello scrittore. La pioggia in questa storia batte e porta racconti alla vigilia della Guerra dei Sei Giorni, nel 1967, porta il nome di Israele oltre che quello dei suoi protagonisti, li avvicina e li stringe. Tutti fermi in una famiglia nel vero senso del termine. In uno sguardo profondo che spezza il tempo e supera ogni facile apprezzamento per un romanzo da leggere stringendo in pugno i propri sogni.



di Alex Pietrogiacomi


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Gustoso


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Feltrinelli, Pag. 134 Euro 14,00

Otto brevi racconti parlano della vita nel kibbutz. Non la spiegano né la commentano, ma ne danno un assaggio con una sorta di immersione diretta. Ne colgono una dimensione umana, sommessa, filtrata dalla profonda maturità di un uomo che ha condiviso sinceramente un'utopia per poi rivederla criticamente con altrettanta sincerità. Come fa dire a uno dei personaggi.
Il kibbutz, pensava, cambia forse un po' le regole sociali, ma la natura umana non la cambia, e questa natura non è affatto semplice. Invidia, meschinità e cattiveria non c'è modo di estirparle con una votazione all'assemblea del kibbutz.

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