RECENSIONI
Armistead Maupin
Una voce nella notte
BUR, Pag. 491 Euro 8.80
Negli ultimi anni mi sono spesso rivolto una domanda: ma se non avessimo avuto l'AIDS, gli scrittori gay (soprattutto americani, ma poi accodati, tutti gli altri man mano che calavano statisticamente nel mondo le T4 nel sangue) cosa avrebbero raccontato?
Lo so è cinismo, ma anche un dato di fatto: una lunga sinfonia di morte ha aleggiato nella cultura omosessuale di questi anni costringendoci a fare i conti con una visione apocalittica del mondo e perché no degli affetti.
Una percezione della fine a volte raccapricciante che paradossalmente si accompagnava (e tutt'ora si accompagna) ad una visibilità sempre maggiore della tematica di fondo.
Tutto sommato ci hanno salvato (doppiamente)gli inibitori della proteasi: hanno affondato lo squallore di letterati che come avvoltoi hanno approfittato del declino per imbottirci di storie truculente e mortifere (come diceva Giovenale... mors omnia solvit... la morte scioglie tutto) e hanno offerto un gommone di salvataggio a tutti gli altri, quelli che ad una dinamica della farmacologia hanno anche preferito l'irrequietezza (santoiddio!) del vivere.
Armistead Maupin sta nel mezzo: non riesce a scrollarsi di dosso le chincaglierie cliniche del passato, ma nello stesso tempo tenta la carta di un riciclo generazionale, lontano dal "maledettismo" di facciata carico di trapassi e decadenze.
I racconti di San Francisco non mi erano piaciuti perché tristi e a volti risaputi singhiozzi (a volte davvero nell'arco di un respiro e di un ingozzo), ma lo aspettavo alla prova più lunga, fuori dagli schemini bruniti di una compiacenza fine a se stessa.
Una voce nella notte è storia ambigua, ma purtroppo non riuscita del tutto.
Qualche cenno: Gabriel, conduttore radiofonico, entra in contatto con un adolescente di nome Pete, autore di un memoriale in cui con sicurezza e sottigliezze psicologiche fuori dal comune, racconta la sua infanzia fatta di terribili violenze subite dai genitori (come a dire che la letteratura gay compie la transumanza: dai pascoli di Sodoma e Gomorra a quelli della pedofilia tout court – per altro, mi suggerisce una collega, pastura ghiotta alla quale s'alimenta gran parte del giallo internazionale). Il protagonista vorrebbe pubblicare la storia ma un tarlo s'insinua in lui (anzi sono le persone accanto che glielo insinuano: probabilmente Pete non esiste e la truculenza è solo un ordito per costruire un casus letterario) costringendolo a rinunciare al progetto.
Il romanzo innesta pure un meccanismo di figliolanza e genitorialità: Pete chiama Gabriel papà (perché quello biologico è in galera dopo le denunce circostanziate del figlio). Gabriel tenta di far sua questa paternità vicaria, ma con mille dubbi e milioni di ripensamenti.
Risorge un dubbio (volevo scrivere: mi sorge un dubbio, ma confesso che durante la lettura del libro troppe volte ho avuto il sospetto di un marchingegno ad hoc), che Maupin abbia voluto scherzare con una materia scottante, che abbia voluto sapientemente mischiare gli elementi triti e demodè del passato (demodé per la farmacologia di cui sopra) con atomi di thriller alla Hitchcock (eh sì, c'è una parvenza di inquietudine) e con i primi rudimenti di una nuova sociologia. La famiglia non più come coacervo di valori fondamentali, ma come palcoscenico di alchimie coraggiose.
O più semplicemente: Maupin è un paraculo e se ne frega dei diritti delle minoranze e dei minori ed ha escogitato un sistema brillante ed argenteo per colpire di riflesso. La letteratura d'altronde è campo fertile di interpretazioni: io mi incisto di varie ipotesi, anche se propendo per quest'ultima, e vado avanti. Però voglio ricorrere ancora a Giovenale: Facit indignatio versum (lo sdegno fa poesia). Comincio a sospettare che faccia anche i soldi.
di Alfredo Ronci
Lo so è cinismo, ma anche un dato di fatto: una lunga sinfonia di morte ha aleggiato nella cultura omosessuale di questi anni costringendoci a fare i conti con una visione apocalittica del mondo e perché no degli affetti.
Una percezione della fine a volte raccapricciante che paradossalmente si accompagnava (e tutt'ora si accompagna) ad una visibilità sempre maggiore della tematica di fondo.
Tutto sommato ci hanno salvato (doppiamente)gli inibitori della proteasi: hanno affondato lo squallore di letterati che come avvoltoi hanno approfittato del declino per imbottirci di storie truculente e mortifere (come diceva Giovenale... mors omnia solvit... la morte scioglie tutto) e hanno offerto un gommone di salvataggio a tutti gli altri, quelli che ad una dinamica della farmacologia hanno anche preferito l'irrequietezza (santoiddio!) del vivere.
Armistead Maupin sta nel mezzo: non riesce a scrollarsi di dosso le chincaglierie cliniche del passato, ma nello stesso tempo tenta la carta di un riciclo generazionale, lontano dal "maledettismo" di facciata carico di trapassi e decadenze.
I racconti di San Francisco non mi erano piaciuti perché tristi e a volti risaputi singhiozzi (a volte davvero nell'arco di un respiro e di un ingozzo), ma lo aspettavo alla prova più lunga, fuori dagli schemini bruniti di una compiacenza fine a se stessa.
Una voce nella notte è storia ambigua, ma purtroppo non riuscita del tutto.
Qualche cenno: Gabriel, conduttore radiofonico, entra in contatto con un adolescente di nome Pete, autore di un memoriale in cui con sicurezza e sottigliezze psicologiche fuori dal comune, racconta la sua infanzia fatta di terribili violenze subite dai genitori (come a dire che la letteratura gay compie la transumanza: dai pascoli di Sodoma e Gomorra a quelli della pedofilia tout court – per altro, mi suggerisce una collega, pastura ghiotta alla quale s'alimenta gran parte del giallo internazionale). Il protagonista vorrebbe pubblicare la storia ma un tarlo s'insinua in lui (anzi sono le persone accanto che glielo insinuano: probabilmente Pete non esiste e la truculenza è solo un ordito per costruire un casus letterario) costringendolo a rinunciare al progetto.
Il romanzo innesta pure un meccanismo di figliolanza e genitorialità: Pete chiama Gabriel papà (perché quello biologico è in galera dopo le denunce circostanziate del figlio). Gabriel tenta di far sua questa paternità vicaria, ma con mille dubbi e milioni di ripensamenti.
Risorge un dubbio (volevo scrivere: mi sorge un dubbio, ma confesso che durante la lettura del libro troppe volte ho avuto il sospetto di un marchingegno ad hoc), che Maupin abbia voluto scherzare con una materia scottante, che abbia voluto sapientemente mischiare gli elementi triti e demodè del passato (demodé per la farmacologia di cui sopra) con atomi di thriller alla Hitchcock (eh sì, c'è una parvenza di inquietudine) e con i primi rudimenti di una nuova sociologia. La famiglia non più come coacervo di valori fondamentali, ma come palcoscenico di alchimie coraggiose.
O più semplicemente: Maupin è un paraculo e se ne frega dei diritti delle minoranze e dei minori ed ha escogitato un sistema brillante ed argenteo per colpire di riflesso. La letteratura d'altronde è campo fertile di interpretazioni: io mi incisto di varie ipotesi, anche se propendo per quest'ultima, e vado avanti. Però voglio ricorrere ancora a Giovenale: Facit indignatio versum (lo sdegno fa poesia). Comincio a sospettare che faccia anche i soldi.
di Alfredo Ronci
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