RECENSIONI
AA.VV.
Posse
Manifestolibri, Pag.199 Euro 16,00"Complicato".
"Beh, ma così son buoni tutti"
da In nome del popolo italiano
E' una rivista, e ne discuto il numero di novembre 2006. Sì: un periodico qual è il Nostro, ancorché internettàro, ha i suoi tempi e le sue interne vicende, che determinano il succedersi delle recensioni. Quest' ultime, oltretutto, dovrebbero render modo al Lettore del coacervo forma-contenuto d'un testo. Invece, accade che - per certe grafìe - uno dei due termini del complesso sia così avvincente e significativo da fagocitare per intero e la relazione e l'antagonista, imponendosi al poveretto/a che ha scelto di parlarne.
Ebbene: nel fascicolo che andiamo a presentare, la forma degli scritti ha tali predominio e attrattiva rispetto al contenuto, sembra così più significante del senso affidato alla lettera, da forzare l'incauto scoliaste a dar retta solo a essa, solo d'essa ragionare.
Intanto: per chi scrivono i redattori di Posse? Certo per un pubblico settoriale, se non per gli esperti. Ce lo avvisa - dicevo - il linguaggio: che non ha a che vedere né con l'italiano immediatamente parlato e quelli che lo mìmano, coprendo una fetta minima nel vocabolario e massima nella comunicazione; né con l'idioletto della ricerca letteraria, che ha il suo nucleo nella lingua delle persone colte - fra Eco e Arbasino, insomma; e neppure con le frange del politichese più sguaiato, nel suo versante destrotecnologico o leftista-antiglobale che sia. Pure, al sinistro non sono estranei; ecco allora che l'ideal-Lettore degli Autori antologizzati corrisponde allo strato non immediatamente ma senz'altro superiore al gruppettoide: la vasta fascia di "lavoratori cognitivi" (p. 64) che va dall'infima "manodopera cognitaria" (p. 65) sino agli analisti della società del controllo, detentori della "parola inattuale", (p. 6) equivalenti ai realizzatori e agli ospiti della rivista di cui ci occupiamo - che sono un po' come quel filosofo amico di Umberto Pavia, (* ) del quale si rimarcava "se non si è colti come lui, i suoi libri non si leggono, e se si è colti come lui si scrivono".
Resta così l'enigma del nome: "Posse". Sarà stato scelto in quanto affine con Rosso? Può darsi. Supponiamo però che abbia a che vedere con l'idea di coinvolgere, sia pure allo scopo d'indottrinare, le "moltitudini" spesso evocate nei testi. Poco male l'indottrinamento: da millenni i preti scopano i pueri alla dottrina - no, cioè, hanno lo scopo d'indottrinare i fanciulli - e nessuno dice niente. Ma se il fine è rivolgersi a circoli più vasti di quelli definiti (anzi, "inscritti") dall'appartenenza alla militanza laureata, beh, te saluto còre, come dicono al paese mio.
Ripeto: non voglio trattare dei contenuti - che saranno giusti, adeguati, corretti, documentati, o quant'altro, oppure viceversa. Rimango alla lingua che li esprime: irrimediabilmente - credo - di nicchia, e, se rivolta ai rivoltosi o supposti tali, guasta. E' lo swahili della sinistra dottorata: e duole veder richiamato (p. 7) il Filosofo dei giochi linguistici, proprio lui che sentenziava "tutto ciò che si può dire, si può dire chiaramente" - e ivi quel Nietzsche di sicuro parente dell'Eraclito nel disprezzo della folla, ma conscio del fatto che le acque della filosofia sembrano profonde perché i filosofi le intorbidano (con in mente Antigone: "chi di correnti pure intorbida limpide acque, non avrà più da bere"). Compagni, andiamo! Se le cose che avete da dire sono importanti, potete dircele (ammesso che vogliate) più chiaramente - laddove chiarezza non significa semplicità beota, ma assenza di sofisticheria. La termodinamica dei sistemi non lineari non s'impara in un giorno, come la descrizione e il governo di qualsivoglia flusso (energetico, economico, demografico) irregolare. Ma in essa si giunge dai fatti basilari alle teorie evolute in modo inequivoco e determinato, attraverso quel linguaggio ben formato che è - come sapeva Lavoisier - la scienza medesima. (**) Nei Vs. scritti invece si subdora un raccordo tra eventi e schemi che li dovrebbero spiegare dovuto solo alla traduzione degli uni e degli altri in un gergo che è l'unico elemento che li amalgama.
Per esempio: leggo (p. 61) che "il corpo (...) è il termometro della violenza del comando sul lavoro, e sugli eventuali stili di vita devianti insiste un complesso e articolato sistema di controllo pubblico e privato". Poche righe dopo, scrivete di questo controllo ch'è ben concreto, addirittura "militare", e che s'articola in istituzioni totali ("Centri di permanenza Temporanea, Carceri speciali per tossicodipendenti, ghetti urbani" fino a "Sanpatrignano spa"). Benissimo: dopodiché, (p. 62) affermate che "il controllo (...) raggiunge la profondità delle coscienze". Siamo d'accordo: si disciplina il corpo e si controlla la coscienza. Sono facce dell'attuale (e dell'eterna) medaglia della potenza: tuttavia, non è possibile che queste forme di coartazione segnalino non una crisi del modello (p. 60) ma una sua ristrutturazione, proprio come in Cina? (p. 61) Reculer... inoltre: il controllo dei corpi significa che non si riescono a controllare tutte le coscienze - sarebbe inutile, se no. Ci sono quindi "menti sfuggenti": ma è ben probabile che lo siano semplicemente perché i corpi che ad esse si attìllano sono ancora o tuttora a disagio. Che dunque l'anima migrante, l'anima operaia e quella del "lavoratore cognitivo" - per parlare delle tre categorie che evidenziate (p. 62) - possan "praticare forme di rifiuto del lavoro e del comando" (p. 67) può darsi: ma può anche darsi che, uno, lo facciano per motivi diversi e forse inconciliabili, e, due, che tendano a porsi come elementi disturbanti solo finché e affiché il sistema non trovi il modo di assorbirli - che la mente sfugga non perché pensi "contro" ma perché vorrebbe pensare "dentro" (il sistema) e non gli riesce. Fin tanto che ciò è possibile, è perlomeno azzardato sostenere "che si stiano manifestando oggi le condizioni e le passioni per proporre un patto sovversivo tra il ciclo del lavoro cognitivo, migrante e di quella arte del lavoro operaio specializzato che si è accorta che è necessario agire nuovamente come proletari, nella moltitudine, rompendo un armistizio che non garantisce più futuro". (p. 70)
Ho quindi l'impressione che il "non più, non ancora" (p. 6) appare soltanto guardando le cose attraverso il binocolo del gergo che avete scelto per esprimervi. Ch'è una lingua che corre il rischio o meglio cade nell'equivoco strutturalista: di vedere nella natura ciò che è nel paradigma che la descrive. (***) Ch'è un gergo, ancora, del quale potrebbe rammaricarsi - lucido e povero - George Orwell: "Se semplifichi il tuo inglese, ti liberi delle peggiori follie dell'ortodossìa. Non potendo più parlare nessuno dei gerghi prescritti, se dici una stupidaggine la sua stupidità sarà evidente anche a te. Il linguaggio politico - e ciò vale in vario grado per tutte le arti politiche, dai conservatori agli anarchici - è inteso a far sembrare veritiere le menzogne e rispettabile ogni nefandezza, e a dare una parvenza di solidità all'aria fritta. Tutto questo non si può cambiare in un momento, ma si possono cambiare almeno le proprie abitudini". (****)
Insomma: siamo grati, come dire, per lo sforzo. E siamo pronti a elogiare voi come chiunque tenti un'analisi delle strutture della società, per quanto fumosa si mostri. E' però un passo avanti (una "posse" avanti) che oggi vi si chiede: un linguaggio che dalla realtà proceda e non che la preceda. Altrimenti si fa la fine di chi ribattezza un ciccione morto "persona non vivente portatrice di adipe" - e quello sempre morto è, e ventrato. O del Pincus Pallinus che, andando a mettere in guardia sull'emergenza del colera, si ostinava a chiamare "mìtili" quelle che tutti chiamavano "cozze" - e addìo profilassi, siccome nessuno capiva niente.
Il "non più, non ancora", infine, è l'impasse ("im-posse": impotenza), la bonaccia antillana. Meglio, allora, preti e poeti che, con vista confusa e intento non chiaro - ma parola pulita, creaturale, e però mai sempliciotta - videro nel passato e nella scuola mezzi per ribattere al presente, fino magari a sganasciarlo. Mezzi con tutti i difetti che si vorranno. Meno che la prassi.
Orsù: un pasìto adelante. Ve lo chiediamo, ovvio, in nome del popolo italiano.
(*) indimenticato autore di Quaderno dei temi (Einaudi, 1977);
(**) è ovvio che da molti anni si discute sul "paradigma", sul "dato carico di teoria", sull'opacità o trasparenza delle teorie medesime, insomma sulla logica della scoperta scientifica. Vero è, però, che è buona scienza empirica quella tanto prossima alla realtà da valere per essa l'assioma di Thomas Huxley: "Una meravigliosa teoria è spesso rovinata da un orrendo fatto";
(***) cfr. U. Eco, La struttura assente, Bompiani, Milano 1987(4), IV.5;
(****) Politics and the english language, cit. in R. Hughes, La cultura del piagnisteo, Adelphi, Milano 1994, p. 34.
di Giulio Lascàris
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