RECENSIONI
Anna Maria Ortese
Da Moby Dick all'Orsa Bianca
Adelphi, Pag. 187 Euro 13,00
La più grande narratrice italiana del novecento non è stata una grande saggista: questi 'sagaci squarci' come vengono definiti nella quarta di copertina, non aggiungono nulla al suo talento, semmai, proprio per confutare la tesi predetta, sottraggono.
Per carità, siamo davanti a riflessioni sempre di un certo decoro, per quanto non capiamo davvero l'esigenza di accorpare pezzi scritti durante più di un cinquantennio (si va dagli articoli redatti alla fine degli anni trenta, a quelli degli inizi degli anni novanta): mancano di quello spessore, a volte analitico, che ne farebbero tutt'altra materia.
Vi sono sì suggestioni poetiche: penso al rapido schizzo dedicato a Buzzati (questo scrittore delicato e sinistro, di una spietata acutezza, sempre in allarme, inquieto, oscuro) o all'affettuosa dichiarazione d'amore per i personaggi delle opere di Cechov (... uelli di Cechov, parlano semplicemente. Sono venuti lì per dirvi soltanto che il cielo è azzurro, che la loro pipa è accesa o spenta, che sono tristi o che gli è andato un fuscello in un occhio), o addirittura alla chiaroveggenza in fatto di letteratura, datata 1957 (!) (si capisce perché la nostra letteratura sia in genere un soliloquio, uno sfogo forbito oppure curioso, mai un'autentica voce, un richiamo, un grido che turbi, una parola che rompa la nebbia in cui dormono le coscienze, il lampo di un giorno nuovo. Noi scriviamo per piacere a noi stessi, nel migliore dei casi; nel peggiore, agli altri: quando avremmo bisogno ogni giorno di ripeterci che siamo la più fastidiosa espressione della nullità, nella più arretrata ed insignificante delle nazioni), ma la sostanza rimane ad un passo sempre dalla raffinatezza dell'indagine.
Per non parlare dell' urticante parte finale del libro, quella dove sono raccolte alcune corrispondenze che la scrittrice tenne con altri colleghi (Bontempelli, Masino, Citati e la Fleur Jaeggy): al di là della riverenza esagerata e quasi vassallesca, vi è una deferenza noiosa ed ordinaria che parte dall'autore per arrivare all'opera, invece che viceversa. Sembra che tutti abbiano scritto capolavori e che fra scrittori sia impossibile la compartecipazione critica.
Scorgo poi, nelle diatribe esistenziali, (ma non vorrei essere un azzeccagarbugli di rimando) una vena anaffettiva che riversa automaticamente nei lavori esaminati, come quando firma la quarta di copertina del libro di Bellezza dedicato alla Morante L'amore felice dove esordisce dicendo: La gran parte delle storie d'amore non sono che storie d'odio, o quando riflettendo sull'opera di Dostoevskji ritiene che l'anima umana non può essere protetta, specificando la natura singola dell'avventura esistenziale.
La Ortese fu immensa nell'arte narrativa, fu grande nella pratica giornalistica, assai meno carata nell'analisi letteraria. Succede no?
di Alfredo Ronci
Per carità, siamo davanti a riflessioni sempre di un certo decoro, per quanto non capiamo davvero l'esigenza di accorpare pezzi scritti durante più di un cinquantennio (si va dagli articoli redatti alla fine degli anni trenta, a quelli degli inizi degli anni novanta): mancano di quello spessore, a volte analitico, che ne farebbero tutt'altra materia.
Vi sono sì suggestioni poetiche: penso al rapido schizzo dedicato a Buzzati (questo scrittore delicato e sinistro, di una spietata acutezza, sempre in allarme, inquieto, oscuro) o all'affettuosa dichiarazione d'amore per i personaggi delle opere di Cechov (... uelli di Cechov, parlano semplicemente. Sono venuti lì per dirvi soltanto che il cielo è azzurro, che la loro pipa è accesa o spenta, che sono tristi o che gli è andato un fuscello in un occhio), o addirittura alla chiaroveggenza in fatto di letteratura, datata 1957 (!) (si capisce perché la nostra letteratura sia in genere un soliloquio, uno sfogo forbito oppure curioso, mai un'autentica voce, un richiamo, un grido che turbi, una parola che rompa la nebbia in cui dormono le coscienze, il lampo di un giorno nuovo. Noi scriviamo per piacere a noi stessi, nel migliore dei casi; nel peggiore, agli altri: quando avremmo bisogno ogni giorno di ripeterci che siamo la più fastidiosa espressione della nullità, nella più arretrata ed insignificante delle nazioni), ma la sostanza rimane ad un passo sempre dalla raffinatezza dell'indagine.
Per non parlare dell' urticante parte finale del libro, quella dove sono raccolte alcune corrispondenze che la scrittrice tenne con altri colleghi (Bontempelli, Masino, Citati e la Fleur Jaeggy): al di là della riverenza esagerata e quasi vassallesca, vi è una deferenza noiosa ed ordinaria che parte dall'autore per arrivare all'opera, invece che viceversa. Sembra che tutti abbiano scritto capolavori e che fra scrittori sia impossibile la compartecipazione critica.
Scorgo poi, nelle diatribe esistenziali, (ma non vorrei essere un azzeccagarbugli di rimando) una vena anaffettiva che riversa automaticamente nei lavori esaminati, come quando firma la quarta di copertina del libro di Bellezza dedicato alla Morante L'amore felice dove esordisce dicendo: La gran parte delle storie d'amore non sono che storie d'odio, o quando riflettendo sull'opera di Dostoevskji ritiene che l'anima umana non può essere protetta, specificando la natura singola dell'avventura esistenziale.
La Ortese fu immensa nell'arte narrativa, fu grande nella pratica giornalistica, assai meno carata nell'analisi letteraria. Succede no?
di Alfredo Ronci
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Anna Maria Ortese
Mistero doloroso
Adelphi, Pag. 114 Euro 10,00Presuntuosamente mi andrebbe di suggerire un mode d'emploi per la lettura del libro. Innanzi tutto fare a meno della post-fazione di Monica Farnetti, e non perché sia inutile (anzi), o fuorviante (anzi) o sbagliata (anzi), o imprecisa (anzi). Andrebbe ignorata perché nulla toglie o aggiunge alla cristallina bellezza di Mistero doloroso: è solo un percorso in più e allestita per quelli che all'arte preferiscono le suggestioni biografiche.
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