RECENSIONI
Mario Fortunato
Le voci di Berlino
Bompiani, Pag. 185 Euro 17,00
Cominciamo dalla copertina.
Lo so, non è civile interessarsi di una cosa quando il resto è tutt’altro, ma non è forse vero che l’occasione fa l’uomo ladro? E qual è questa occasione?
Francamente non la capisco, nonostante la bella intelligenza dell’autore di disciplinarsi in varie attività.
Diciamocelo, Mario Fortunato ci è sempre piaciuto: ci piace il suo senso europeo della letteratura (escludiamo che sia per il fatto che è inviato dell’Espresso e se ne sta in giro per posticini come se nulla fosse) e ci piace anche come lo trasmette al lettore creando un gioco di specchi e di rimandi… ma la copertina no.
Cosa sono quei due esseri (… senza nulla a pretendere) che paiono offrirsi al miglior offerente ma con lo sguardo di chi non perde l’occasione per rivendicare le proprie pulsioni e i propri diritti? (Si scherza, accidenti…).
Il libro invece matura qualcos’altro.
E’ la storia di Berlino, ma di una Berlino che ormai non c’è più ma che nello stesso tempo sopravvive alla memoria e ri-diventa pietra angolare di una società e di una cultura universale e storica.
Il libro è fatto di incontri, di occasioni, di riflessioni… di perturbazioni. E nella tessitura di questo si fa bello e interessante. Quando seguiamo Isherwood nella capitale, che presto diventerà una sorta di trappola per la cultura e per l’umanità in genere, capiamo che c’è qualcosa che ci sfugge e nello stesso tempo ci trascina verso un centro in cui è difficile sottrarsi. Lo stesso dicasi per Auden e per i figli di Thomas Man, Erika e Klaus, che tentano di riannodare il filo della memoria e dell’identità in una città ormai distrutta e irriconoscibile.
Il resto, come direbbe qualcuno, è noia.
Per carità, il talento e la capacità descrittiva di Fortunato ci sono tutte: è uno stile piano, ma mai sfruttato, carico di ricordi e di sensazioni che, come dice anche con una sottigliezza improvvisa la seconda di copertina, si carica di un involontario autobiografismo , ma è anche evidente che è il richiamo dei grandi a fare grande la costruzione.
Non me ne voglia l’autore, ma quando il suono della letteratura è grande, in qualche modo è grande anche lui stesso, quando manca l’appiglio… beh si scioglie un po’ tutto.
Nonostante Berlino.
di Alfredo Ronci
Lo so, non è civile interessarsi di una cosa quando il resto è tutt’altro, ma non è forse vero che l’occasione fa l’uomo ladro? E qual è questa occasione?
Francamente non la capisco, nonostante la bella intelligenza dell’autore di disciplinarsi in varie attività.
Diciamocelo, Mario Fortunato ci è sempre piaciuto: ci piace il suo senso europeo della letteratura (escludiamo che sia per il fatto che è inviato dell’Espresso e se ne sta in giro per posticini come se nulla fosse) e ci piace anche come lo trasmette al lettore creando un gioco di specchi e di rimandi… ma la copertina no.
Cosa sono quei due esseri (… senza nulla a pretendere) che paiono offrirsi al miglior offerente ma con lo sguardo di chi non perde l’occasione per rivendicare le proprie pulsioni e i propri diritti? (Si scherza, accidenti…).
Il libro invece matura qualcos’altro.
E’ la storia di Berlino, ma di una Berlino che ormai non c’è più ma che nello stesso tempo sopravvive alla memoria e ri-diventa pietra angolare di una società e di una cultura universale e storica.
Il libro è fatto di incontri, di occasioni, di riflessioni… di perturbazioni. E nella tessitura di questo si fa bello e interessante. Quando seguiamo Isherwood nella capitale, che presto diventerà una sorta di trappola per la cultura e per l’umanità in genere, capiamo che c’è qualcosa che ci sfugge e nello stesso tempo ci trascina verso un centro in cui è difficile sottrarsi. Lo stesso dicasi per Auden e per i figli di Thomas Man, Erika e Klaus, che tentano di riannodare il filo della memoria e dell’identità in una città ormai distrutta e irriconoscibile.
Il resto, come direbbe qualcuno, è noia.
Per carità, il talento e la capacità descrittiva di Fortunato ci sono tutte: è uno stile piano, ma mai sfruttato, carico di ricordi e di sensazioni che, come dice anche con una sottigliezza improvvisa la seconda di copertina, si carica di un involontario autobiografismo , ma è anche evidente che è il richiamo dei grandi a fare grande la costruzione.
Non me ne voglia l’autore, ma quando il suono della letteratura è grande, in qualche modo è grande anche lui stesso, quando manca l’appiglio… beh si scioglie un po’ tutto.
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