RECENSIONI
Angelo Morino
In viaggio con Junior
Sellerio, Pag. 213 Euro 8.00
Da buon tempo attendevo l'estro di aggiungere al carnet ("Carnet? Chi era costui?" "Il Carnet Branca", mi suggerisce Alphredo (raffinato come l'Adelphi)) di scritti paradisiaci una pararecensione - magari aiutato da più d'un gotto di quello buono (va bene: quarantaquattro gotti). Invano.
Ed ecco, puntuale, questo bel testo di Morino. Eh sì: In viaggio con Junior è proprio quel che si dice un bel libro, mortacci sua!- romanzo "che più fa romanzo" (p. 43). E difatti, avevo abbozzato il commento che segue: <<"Morino va come un treno. Uno di quelli che sono rapidi, ma non abbastanza per non dàrti il tempo di cogliere, nel paesaggio corrente, minuti particolari - uno di quelli insomma che l'Autore frequenta e magistralmente descrive. La grafìa di Morino è dunque una scrittura veloce: il che non significa che non si accurata, riscritta, meditata, pedante a volte. Ma tanta è l'arte, che l'arte non si vede.
Veloce, e concreta: almeno qui e in Rosso taranta, il "romanzo" viene dalle occasioni vitali dell'Autore, dai suoi incontri, dal suo sguardo serio, normalmente distaccato e assieme normalmente partecipe, su cose e persone - un dito sotto Flaiano. C'è una concisione tutta densità - "rem tene" -, un riguardo per le parole e i sensi che esprimono, specialmente se dolorosi, per cui le vie, le case, le conoscenze e gli affetti, vengono esposti con un pudore virìle che li sorveglia e li protegge - pur svelandoli. E', questo, l'atteggiamento della migliore gioventù, non più bambina e non ancora adulta, ch'è il luogo del desiderio per lo scrittore ("tuttalpiù giovani uomini con inequivocabili tracce di adolescenza che perdurano sul viso e sul corpo", p. 87): la qualità biologica, creaturale, psicofisica, si ripercuote nella scrittura, dando origine a quell'annodamento profondo tra arte e vita che è lo stile. (*) Vien fatto di pensare a chi diceva dell'adolescenza che era "la vecchiezza dell'infanzia": una maturità non intorpidita da un corpo imbelle, un corpo ragionato da un sapere non senile.
Ma quest'equilibrio mobile, può facilmente tendere all'instabilità. Da che la storia del ventitreenne Junior, e della sua deriva nella psicosi: mortogli il padre - di dannata memoria, poiché da quel che professava, la moglie dedusse (p. 175) avrebbe potuto abusare di lui e delle sorelle, in età precocissima: e perciò l'aveva allontanato dalla famiglia -, il giovane viene d'improvviso a cadere in un'anomìa (mancanza di no(r)me) che alcool, farmaci e terapie provano senza esito a colmare.
Non dico a caso di questo duplice sregolamento: uno psichiatra gli ripete "leggi, leggi", e il giovane uomo pare declinarlo come un imperativo - difatti si presenta al dottore con i libri che con furia frequenta e lègge. Però il medico gli consigliava di dàrsi norme, regole - léggi, appunto. E nel testo per la sua durata corre sotterraneo un richiamo al nome, alla nominazione, che coinvolge il fin quasi alla fine innominato ragazzo, sicché il padre, euforico, gli consegna di perpetuare il casato - e lui, omosessuale, ne sente l'invalidità, a meno di non darsi (dirsi) femmina. Impropria anfibologia, che al nome toglie il significato sociale gerarchico per dargli puro senso, e s'annuncia pagine prima in un falso etimologico (in una denominazione denaturata, quindi): la parola che Bihn, attraente giovane vietamericano, usa per spiegare alla madre che è gay, in realtà nella lingua materna indica l'ermafrodita - e, viceversa "certe parole si ha l'impressione che (...) siano straniere anche se appartengono al nostro dizionario". (p. 17) Il nome non è nume. E, ancora, si dà la non corrispondenza tra parlar materno e lingua dei padri, ancora il doppio gioco tra parole e cose - non si scordi che Morino è traduttore, abituato a volgere (come lègge-légge, suggeriamo vòlto-vólto come tracciante nel testo: Junior cerca "gente che gli assomigliasse, gente col suo stesso nome", p. 203) lingua in lingua - detta così, pare una cosuccia french kiss, briccona, arbasinevole.
Dunque: tornato da New York per accudire il giovane partner - nella finzione (ma è una finzione à la Siti, improntata alla realtà: come del professore dèdito agli XXXL qui si ritrova una qual certa combinatoria di congegni di rimando) -, l'Autore con lui volge a Matera, in un lungo viaggio per ferrovia nel Sud-Sur realista-magico, arcaico, extratarantinato. Scoperta della città dei Sassi - anche in senso proprio: "Saliamo e scendiamo in un sottosuolo scoperchiato" (p. 141) - e...">>
E qui d'un tratto m'è parso che il gioco intellettuale, levigatissimo, che pure l'Autore suscita, faccia dimenticare che il romanzo, in sé, è un genere ad alto tasso di emotività - vengono citati (p. 43) i polpettoni della Pearl Buck come preferite letture giovanili: e, in gener(al)e, non si può non piangere sull'incontro fra il vescovo Myriel e Jean Valjean ("e se non piangi, di che pianger suoli?"), non turbarsi di fronte alla compulsione di Achab e alla malizia di Rogoin, non fremere per l'ottuso rigore di Murdstone, non incupirsi sulle occasioni perdute da lord Jim, non indignarsi per la bassezza di Saro, il polidàttile lombrosiano pederasta che tenta di circuìre Agostino. Macchina sentimentale e teoria degli affetti è la novella: e Morino - sebbene la trama intellettuale le raffreddi, e si premuri lui di distanziarle - è un eccellente geometra delle passioni, sebbene si aiuti precisando che il suo Junior è "centro di affetti, ma non di desiderio". (p. 55) In questo senso, ricorda Tony Duvert, e precisamente Quando morì Jonathan, del quale mi pare (emotivamente) il seguito: il Francese dettaglia la storia di passione fra un trentenne pittore e un ragazzetto che va, nel testo, da otto a undici anni. Morino ("Quando "Morino" Jonathan"?) fa crescere il puledrino e invecchia lo stallone - ma le delicate, forti, mai invadenti, equilibrate affettività e cura cresciute sul declinare del sessappiglio mi dàn l'idea che continuino quell'atmosfera fragile e ricca, sia pure incupita dalla paura e dal vuoto creato dalla morte del padre - e dalla taciuta consapevolezza, giocata tra il non si può e il non si deve, che amante e genitore hanno sensi immiscibili: nel bene del chiarire ruoli che devono recare al cucciolo prima e al giovane animale poi dissimili ausilii e intelletti d'amore. Nel male di non poter lenìre la ferita, la perdita, sino in fondo - e perciò non varcare quella distanza che pure si vorrebbe: rimanere nella "pellicola resistente" che "separa da quanto sta intorno" e che bisogna "lacerarla con l'avanzare del (...) corpo". (p. 25) Bell'emblema, questo, d'ogni concreto coinvolgimento amoroso - sino allo sverginarsi: e l'inquietudine omosex diventa meccanica etero.
Concludo questa recensione a due soggetti con un'ineleganza: è uso, recensendo, dissimulare i retroscena che han portato il critico ad eleggere un testo. Si sa, noi siam come le lucciole, viviamo nelle tenebre: però vorrei far nota al Lettore la suggestione doppia che m'ha spinto a scrivere di questo Morino. Il ricordo d'un discutibile Viaggio col padre, di Marcello Argilli. E il desiderio - finora irrisolto - di scrivere io un romanzo imperniato sul trasloco ("metafora" non altro è, in greco(**)), magari di sensi ("sinestesia"), fra un adulto e un ragazzo.
Mi voglio rovinare: facciamo un bambino, va'!
(*) Cfr. Paola Colaiacomo che riporta Walter Pater nell'introduzione a La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica, CDE su lic. R.C.S, Milano 1998, p. XXXI;
(**) il riferimento è al seguente libro di pennichèlle: Andrea Canobbio, Traslochi, Einaudi, Torino 1992.
di Marco Lanzòl
Ed ecco, puntuale, questo bel testo di Morino. Eh sì: In viaggio con Junior è proprio quel che si dice un bel libro, mortacci sua!- romanzo "che più fa romanzo" (p. 43). E difatti, avevo abbozzato il commento che segue: <<"Morino va come un treno. Uno di quelli che sono rapidi, ma non abbastanza per non dàrti il tempo di cogliere, nel paesaggio corrente, minuti particolari - uno di quelli insomma che l'Autore frequenta e magistralmente descrive. La grafìa di Morino è dunque una scrittura veloce: il che non significa che non si accurata, riscritta, meditata, pedante a volte. Ma tanta è l'arte, che l'arte non si vede.
Veloce, e concreta: almeno qui e in Rosso taranta, il "romanzo" viene dalle occasioni vitali dell'Autore, dai suoi incontri, dal suo sguardo serio, normalmente distaccato e assieme normalmente partecipe, su cose e persone - un dito sotto Flaiano. C'è una concisione tutta densità - "rem tene" -, un riguardo per le parole e i sensi che esprimono, specialmente se dolorosi, per cui le vie, le case, le conoscenze e gli affetti, vengono esposti con un pudore virìle che li sorveglia e li protegge - pur svelandoli. E', questo, l'atteggiamento della migliore gioventù, non più bambina e non ancora adulta, ch'è il luogo del desiderio per lo scrittore ("tuttalpiù giovani uomini con inequivocabili tracce di adolescenza che perdurano sul viso e sul corpo", p. 87): la qualità biologica, creaturale, psicofisica, si ripercuote nella scrittura, dando origine a quell'annodamento profondo tra arte e vita che è lo stile. (*) Vien fatto di pensare a chi diceva dell'adolescenza che era "la vecchiezza dell'infanzia": una maturità non intorpidita da un corpo imbelle, un corpo ragionato da un sapere non senile.
Ma quest'equilibrio mobile, può facilmente tendere all'instabilità. Da che la storia del ventitreenne Junior, e della sua deriva nella psicosi: mortogli il padre - di dannata memoria, poiché da quel che professava, la moglie dedusse (p. 175) avrebbe potuto abusare di lui e delle sorelle, in età precocissima: e perciò l'aveva allontanato dalla famiglia -, il giovane viene d'improvviso a cadere in un'anomìa (mancanza di no(r)me) che alcool, farmaci e terapie provano senza esito a colmare.
Non dico a caso di questo duplice sregolamento: uno psichiatra gli ripete "leggi, leggi", e il giovane uomo pare declinarlo come un imperativo - difatti si presenta al dottore con i libri che con furia frequenta e lègge. Però il medico gli consigliava di dàrsi norme, regole - léggi, appunto. E nel testo per la sua durata corre sotterraneo un richiamo al nome, alla nominazione, che coinvolge il fin quasi alla fine innominato ragazzo, sicché il padre, euforico, gli consegna di perpetuare il casato - e lui, omosessuale, ne sente l'invalidità, a meno di non darsi (dirsi) femmina. Impropria anfibologia, che al nome toglie il significato sociale gerarchico per dargli puro senso, e s'annuncia pagine prima in un falso etimologico (in una denominazione denaturata, quindi): la parola che Bihn, attraente giovane vietamericano, usa per spiegare alla madre che è gay, in realtà nella lingua materna indica l'ermafrodita - e, viceversa "certe parole si ha l'impressione che (...) siano straniere anche se appartengono al nostro dizionario". (p. 17) Il nome non è nume. E, ancora, si dà la non corrispondenza tra parlar materno e lingua dei padri, ancora il doppio gioco tra parole e cose - non si scordi che Morino è traduttore, abituato a volgere (come lègge-légge, suggeriamo vòlto-vólto come tracciante nel testo: Junior cerca "gente che gli assomigliasse, gente col suo stesso nome", p. 203) lingua in lingua - detta così, pare una cosuccia french kiss, briccona, arbasinevole.
Dunque: tornato da New York per accudire il giovane partner - nella finzione (ma è una finzione à la Siti, improntata alla realtà: come del professore dèdito agli XXXL qui si ritrova una qual certa combinatoria di congegni di rimando) -, l'Autore con lui volge a Matera, in un lungo viaggio per ferrovia nel Sud-Sur realista-magico, arcaico, extratarantinato. Scoperta della città dei Sassi - anche in senso proprio: "Saliamo e scendiamo in un sottosuolo scoperchiato" (p. 141) - e...">>
E qui d'un tratto m'è parso che il gioco intellettuale, levigatissimo, che pure l'Autore suscita, faccia dimenticare che il romanzo, in sé, è un genere ad alto tasso di emotività - vengono citati (p. 43) i polpettoni della Pearl Buck come preferite letture giovanili: e, in gener(al)e, non si può non piangere sull'incontro fra il vescovo Myriel e Jean Valjean ("e se non piangi, di che pianger suoli?"), non turbarsi di fronte alla compulsione di Achab e alla malizia di Rogoin, non fremere per l'ottuso rigore di Murdstone, non incupirsi sulle occasioni perdute da lord Jim, non indignarsi per la bassezza di Saro, il polidàttile lombrosiano pederasta che tenta di circuìre Agostino. Macchina sentimentale e teoria degli affetti è la novella: e Morino - sebbene la trama intellettuale le raffreddi, e si premuri lui di distanziarle - è un eccellente geometra delle passioni, sebbene si aiuti precisando che il suo Junior è "centro di affetti, ma non di desiderio". (p. 55) In questo senso, ricorda Tony Duvert, e precisamente Quando morì Jonathan, del quale mi pare (emotivamente) il seguito: il Francese dettaglia la storia di passione fra un trentenne pittore e un ragazzetto che va, nel testo, da otto a undici anni. Morino ("Quando "Morino" Jonathan"?) fa crescere il puledrino e invecchia lo stallone - ma le delicate, forti, mai invadenti, equilibrate affettività e cura cresciute sul declinare del sessappiglio mi dàn l'idea che continuino quell'atmosfera fragile e ricca, sia pure incupita dalla paura e dal vuoto creato dalla morte del padre - e dalla taciuta consapevolezza, giocata tra il non si può e il non si deve, che amante e genitore hanno sensi immiscibili: nel bene del chiarire ruoli che devono recare al cucciolo prima e al giovane animale poi dissimili ausilii e intelletti d'amore. Nel male di non poter lenìre la ferita, la perdita, sino in fondo - e perciò non varcare quella distanza che pure si vorrebbe: rimanere nella "pellicola resistente" che "separa da quanto sta intorno" e che bisogna "lacerarla con l'avanzare del (...) corpo". (p. 25) Bell'emblema, questo, d'ogni concreto coinvolgimento amoroso - sino allo sverginarsi: e l'inquietudine omosex diventa meccanica etero.
Concludo questa recensione a due soggetti con un'ineleganza: è uso, recensendo, dissimulare i retroscena che han portato il critico ad eleggere un testo. Si sa, noi siam come le lucciole, viviamo nelle tenebre: però vorrei far nota al Lettore la suggestione doppia che m'ha spinto a scrivere di questo Morino. Il ricordo d'un discutibile Viaggio col padre, di Marcello Argilli. E il desiderio - finora irrisolto - di scrivere io un romanzo imperniato sul trasloco ("metafora" non altro è, in greco(**)), magari di sensi ("sinestesia"), fra un adulto e un ragazzo.
Mi voglio rovinare: facciamo un bambino, va'!
(*) Cfr. Paola Colaiacomo che riporta Walter Pater nell'introduzione a La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica, CDE su lic. R.C.S, Milano 1998, p. XXXI;
(**) il riferimento è al seguente libro di pennichèlle: Andrea Canobbio, Traslochi, Einaudi, Torino 1992.
di Marco Lanzòl
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Angelo Morino
Rosso taranta
Sellerio, pag. 173 Euro 10,00Tra diversi stadi preparatori, un mese d'indagine sul campo (1959) e la pubblicazione nel 1961, prese corpo La terra del rimorso, indagine antropologico-religiosa condotta da Ernesto De Martino e collaboratori. Il fenomeno indagato era il "tarantismo", che risultò non essere collegato ad un'azione fisica - l'avvelenamento per il morso di tarantole o serpi o affini - bensì alla "terapia" magico-cultuale d'un evento simbolico, rivelatore d'un caos precedente.
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