RECENSIONI
Kari Hotakainen
La legge di natura
Pag. 270 Euro 17,50, Traduzione di Nicola Rainò, Pag. 270 Euro 17,50
La definizione di ‘umorista’ attribuita a Hotakinen appare fuorviante quando si legge il suo romanzo. È pur vero che vi figurano situazioni paradossali, al limite del surreale, che arrivano a far sorridere, ma la galleria dei tipi che si agitano sulla scena sono dotati di una demenzialità che appartiene, lo si ammetta o no, al registro della vita quotidiana, in Finlandia come da noi. Il messaggio sociale, poi, incentrato sul rapporto fra welfare e evasione fiscale, è perfino didascalico tanto è scoperto e insistito, e ne trapela un’autentica angoscia.
La storia pare costruita apposta per offrire una parabola all’assunto dell’autore. È una pena del contrappasso infatti quella che tocca al protagonista. Imprenditore con accentuata propensione all’evasione fiscale, si trova confinato, a causa di un incidente d’auto, in un reparto ospedaliero penalizzato dai tagli alla sanità.
Emerso dalle nebbie dell’incoscienza e obbligato a un’immobilità che spera temporanea, Rautala intraprende una sorta di viaggio interiore in cui vengono rivisitati i disastrati rapporti familiari e la sua poco trasparente attività commerciale. La figlia ambientalista, per esempio, è il suo esatto contrario, tanto che stanno ai ferri corti anche nel momento in cui lei è sul punto di renderlo nonno.
L’Autore dimostra grande capacità di calarsi nella soggettività dell’arteriosclerosi e della demenza senile quando affronta i capitoli dedicati ai genitori del protagonista, che offrono forse le pagine più interessanti.
… ripose la foto nel cassetto, scaldò la minestra e di colpo si ricordò che suo figlio aveva avuto un incidente. Gliel’aveva detto qualcuno. Poco prima. Uno che urlava. Oggi urlano tutti. L’apparecchio acustico cambia le urla in discorsi. E le auto ormai le fanno così bene che ci fai i peggiori incidenti (…) L’uomo è qualcosa di immenso, contiene così tanti ingredienti, come lo stufato. Per esempio l’alloro. Ce lo metti, eppure mica te lo mangi quando lo stufato è pronto, eppure non può mancare. Lo stesso accade con l’uomo, ha dentro il male, e per quanto non lo usi spesso, ce lo deve avere.
Così ragiona il padre di Rautala, oscillante fra demenza e suprema saggezza, attore mancato che freme nell’attesa di assistere a una rappresentazione dell’Amleto, ma deve fare i conti con la moglie da assistere, ancora più invalida di lui. Così il figlio ferito e la nipote in procinto di partorire diventano un fardello troppo grande da contenere nella sua testa dove tutto va e viene. Non è nemmeno il più squinternato, visto che il collaboratore della ditta di Rautala va a trovarlo in ospedale con un bel regalo: una pecora proposta come originale animale da compagnia. In alternativa dovrà ripiegare su uno stufato di pecora. Anzi, i regali sono due: il secondo è un bel mazzetto di fatture false per rimediare all’eccesso di evasione fiscale.
Va avanti così tutto il libro, come un impianto di tre o quattro fili paralleli che continuamente si intrecciano, si sovrappongono, e ogni tanto, se stanno troppo vicini, vanno in corto circuito. Il filone principale è l’incessante monologo interiore del protagonista, costretto dalla malattia a rivisitare tutti gli aspetti della sua vita. Lui, che non si trova a proprio agio nelle relazioni familiari (ognuno preso nella corrente della propria vita e sostanzialmente impenetrabile agli altri) è ora costretto a entrare in relazione con le infermiere e con gli altri pazienti. Una scuola un po’ dura, dal momento che non gli è concessa un’alternativa, ma utile a scoprire che esiste un punto di vista altrui e che, pur essendo tutti così diversi, è possibile confrontarsi. Sua partner in quest’esercizio è l’infermiera Laura, dedita al suo lavoro ma sempre sull’orlo di una crisi di nervi, e perciò costretta a usare la musica come una droga da assumere a dosi massicce. E alla fine il troppo è troppo.
In questo lavoro ci vuole tanta immaginazione, e la mia deve essersi esaurita. Come tutto il resto. Sono tutt’una con l’ospedale. I pazienti sono la mia famiglia. Non ho una vita fuori. Mi porto il lavoro a casa (…) Mi criticano per il lettore cd che mi porto al lavoro. E per la musica che ascolto. Metal estremo. Muri di chitarre, pezzi di budella nei testi. Ognuno si fa forza come riesce.
Il testo è rapido, seghettato di frasi brevi, vivace e pieno di originalità. I personaggi sono esagerati eppure realistici. Nello stesso tempo non sono riuscita a liberarmi dalla sensazione di sentire cose già dette, temi già sviscerati altrove, sia pure con altro linguaggio. Dipende forse da quella punta di intenzione didascalica che, come il sale, si sente anche quando eccede di poco.
di Giovanna Repetto
La storia pare costruita apposta per offrire una parabola all’assunto dell’autore. È una pena del contrappasso infatti quella che tocca al protagonista. Imprenditore con accentuata propensione all’evasione fiscale, si trova confinato, a causa di un incidente d’auto, in un reparto ospedaliero penalizzato dai tagli alla sanità.
Emerso dalle nebbie dell’incoscienza e obbligato a un’immobilità che spera temporanea, Rautala intraprende una sorta di viaggio interiore in cui vengono rivisitati i disastrati rapporti familiari e la sua poco trasparente attività commerciale. La figlia ambientalista, per esempio, è il suo esatto contrario, tanto che stanno ai ferri corti anche nel momento in cui lei è sul punto di renderlo nonno.
L’Autore dimostra grande capacità di calarsi nella soggettività dell’arteriosclerosi e della demenza senile quando affronta i capitoli dedicati ai genitori del protagonista, che offrono forse le pagine più interessanti.
… ripose la foto nel cassetto, scaldò la minestra e di colpo si ricordò che suo figlio aveva avuto un incidente. Gliel’aveva detto qualcuno. Poco prima. Uno che urlava. Oggi urlano tutti. L’apparecchio acustico cambia le urla in discorsi. E le auto ormai le fanno così bene che ci fai i peggiori incidenti (…) L’uomo è qualcosa di immenso, contiene così tanti ingredienti, come lo stufato. Per esempio l’alloro. Ce lo metti, eppure mica te lo mangi quando lo stufato è pronto, eppure non può mancare. Lo stesso accade con l’uomo, ha dentro il male, e per quanto non lo usi spesso, ce lo deve avere.
Così ragiona il padre di Rautala, oscillante fra demenza e suprema saggezza, attore mancato che freme nell’attesa di assistere a una rappresentazione dell’Amleto, ma deve fare i conti con la moglie da assistere, ancora più invalida di lui. Così il figlio ferito e la nipote in procinto di partorire diventano un fardello troppo grande da contenere nella sua testa dove tutto va e viene. Non è nemmeno il più squinternato, visto che il collaboratore della ditta di Rautala va a trovarlo in ospedale con un bel regalo: una pecora proposta come originale animale da compagnia. In alternativa dovrà ripiegare su uno stufato di pecora. Anzi, i regali sono due: il secondo è un bel mazzetto di fatture false per rimediare all’eccesso di evasione fiscale.
Va avanti così tutto il libro, come un impianto di tre o quattro fili paralleli che continuamente si intrecciano, si sovrappongono, e ogni tanto, se stanno troppo vicini, vanno in corto circuito. Il filone principale è l’incessante monologo interiore del protagonista, costretto dalla malattia a rivisitare tutti gli aspetti della sua vita. Lui, che non si trova a proprio agio nelle relazioni familiari (ognuno preso nella corrente della propria vita e sostanzialmente impenetrabile agli altri) è ora costretto a entrare in relazione con le infermiere e con gli altri pazienti. Una scuola un po’ dura, dal momento che non gli è concessa un’alternativa, ma utile a scoprire che esiste un punto di vista altrui e che, pur essendo tutti così diversi, è possibile confrontarsi. Sua partner in quest’esercizio è l’infermiera Laura, dedita al suo lavoro ma sempre sull’orlo di una crisi di nervi, e perciò costretta a usare la musica come una droga da assumere a dosi massicce. E alla fine il troppo è troppo.
In questo lavoro ci vuole tanta immaginazione, e la mia deve essersi esaurita. Come tutto il resto. Sono tutt’una con l’ospedale. I pazienti sono la mia famiglia. Non ho una vita fuori. Mi porto il lavoro a casa (…) Mi criticano per il lettore cd che mi porto al lavoro. E per la musica che ascolto. Metal estremo. Muri di chitarre, pezzi di budella nei testi. Ognuno si fa forza come riesce.
Il testo è rapido, seghettato di frasi brevi, vivace e pieno di originalità. I personaggi sono esagerati eppure realistici. Nello stesso tempo non sono riuscita a liberarmi dalla sensazione di sentire cose già dette, temi già sviscerati altrove, sia pure con altro linguaggio. Dipende forse da quella punta di intenzione didascalica che, come il sale, si sente anche quando eccede di poco.
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