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Il Paradiso degli Orchi
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RECENSIONI

Laura Pariani

La valle delle donne lupo

Einaudi, Pag. 244 Euro 19,50
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Copre tutto l'arco di una vita, dal 1928 al 2007, questa storia che contiene tante altre storie, specialmente di donne e soprattutto di donne messe ai margini da una società montanara gelosa delle tradizioni e attenta a esorcizzare il diverso, per far sì che nulla cambi. L'espediente di un'intervista che un'antropologa raccoglie dalla viva voce di una vecchia montanara in una sperduta valle piemontese serve ad acuire il senso di veridicità. Ma non è tutta finzione, perché davvero il racconto si basa su materiale autentico raccolto dagli studiosi delle tradizioni popolari. L'Autrice svela in una nota finale la provenienza dei suoi ingredienti, e da qui si evince che l'invenzione letteraria riguarda l'assemblaggio più che i contenuti delle storie. A lei si devono due cose: la creazione di un personaggio difficile da dimenticare, e l'invenzione di un linguaggio straordinario.

La Fenìsia nasce in una famiglia di becchini e cresce fra le tombe di un piccolo cimitero di montagna. Senza paura, perché le hanno insegnato che bisogna avere paura dei vivi, non dei morti. E sono i vivi infatti che, a quella realtà già dura per l'inclemenza degli elementi, aggiungono il loro carico di grettezza e di prepotenza. Sono specialmente gli uomini che impongono la loro volontà alle donne e che reprimono a suon di botte ogni deviazione dalla via tracciata. C'è accanto al villaggio un prato, detto "il prato delle Balenghe" dove vengono seppellite le donne "diverse": quelle che sono nate con una malformazione o con un carattere troppo indipendente, quelle che sono andate contro corrente, quelle impazzite per gli stenti, quelle che hanno sopportato finché hanno potuto e poi hanno scelto di togliersi la vita. Anche la Fenìsia è un po' balenga, ma a differenza delle altre, vittime ignare, è consapevole di esserlo e conosce, insieme al prezzo da pagare, anche il senso e il valore dell'essere come una spina nel fianco di quel sistema atavico che teme l'indipendenza femminile come il peggiore dei mali. La Fenìsia riesce ad attraversare il tempo della vita senza arrendersi, piegandosi a volte solo per non spezzarsi. Rustica, sempre più disincantata, eppure sempre più immersa in un sua magica poesia.

Comunque mette uno sfrisio d'inquietudine traversare quel tratto di pendio, affrontare la fitta bruma che certe volte lo copre, sapendo che si tratta di un cimitero senza croci e senza nomi. La Fenìsia sente fremere dentro di sé qualcosa che le arriva da lontano attraverso il sangue: la lunga catena di Balenghe che sono vissute nella valle, passandosi una dolorosa e sotterranea eredità d'umori e d'ombre, da madre in figlia o da nonna a nipote. Quelle che non poterono difendersi. Quelle che nessuno piange. Quelle che nessuno vuol ricordare. Quelle che non hanno nome.

La lingua, dicevo. La Pariani tesse da sé la stoffa con cui vestire il suo romanzo, specie nelle parti in cui dà voce alla Fenìsia. Mescola l'italiano con il dialetto di quella remota valle piemontese al confine con la Svizzera, ma senza le barriere delle virgolette o del corsivo. Si assume il coraggio di creare una lingua nuova, dove le forme dialettali sono incluse nel linguaggio come le venature nel marmo.

Tempo di flanellare non c'era. Sveglia presto, ché chi più dorme meno vive, dicevano in casa. Lavori? Tanti. Presèmpio, da ramassare stramaglie nel bosco, poi le more, i mirtilli, i marroni alla sò stagione: le castagne che si bacchiavano, quelle belle si portavano a vendere al mercato in città, le piccoline o con le magagne si seccavano per l'inverno. Sempre col cavagno in spalla. Bontempo o malotempo, faceva lo stesso: si doveva buscare la giornata...

Leggende, proverbi, timori atavici. E' un'immersione in un mondo fuori dal tempo, dove la natura è una presenza misteriosa, in parte minacciosa e in parte consolatrice. E fra donne e lupi può nascere un rapporto di oscura fratellanza.



di Giovanna Repetto


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Con Laura Pariani si va sul sicuro. Non delude mai (parlo per me, almeno) perché ha dalla sua il dono della lingua. Impasta un suo particolare linguaggio come il fornaio impasta il pane, e si sa che il pane si può ricreare in tante versioni diverse, pur rimanendo sempre pane e sempre buono (se è buono il fornaio). Che cosa mette nell’impasto oltre a un italiano brillante e perfetto? Ci sono parole mutuate dal dialetto e altre carpite a un lessico familiare. E insomma, per ogni storia reinventa una lingua che di quella storia è l’espressione naturale.

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